Visit Sponsor

Franco Tagliabue VolontéWritten by: Città e Territorio Forum

Terremoto: pensiamo a città nuove e migliori

Terremoto: pensiamo a città nuove e migliori

Il “com’era, dov’era” sembra rappresentare la risposta più rassicurante, ma rischia di essere il terreno d’espressione più fertile dell’edilizia da geometra di paese. Perché non pensare a un modello in itinere, capace di evolversi insieme alla costruzione della nuova città?

 

Tutti i terremoti sono un fenomeno a sé, pur presentando molte caratteristiche comuni. Dipendono dalla situazione geologica, dalla loro potenza, dalla condizione degli edifici, ma anche dal contesto socio-economico entro il quale si verifica l’evento. Talvolta il sisma distrugge ogni cosa, altre volte danneggia gli edifici più datati. Altre volte ancora prende di mira una tecnologia specifica, magari più contemporanea.

Per esempio nel terremoto emiliano del 2012 è come se il sisma nella sua azione distruttiva si fosse fermato appena un attimo prima della “tabula rasa”, giusto sulla soglia di datazione che delimita il monumento dal corpo storico della città. Quello aquilano è stato molto più distruttivo, ma paesi vicinissimi come Fossa e Villa Sant’Angelo hanno subito danni di natura diversissima.

Un terremoto è un evento traumatico molto difficile da affrontare, non solo per la popolazione che lo deve superare ma anche per gli esperti e i professionisti che a vario grado intervengono nella ricostruzione.

Ho effettuato sopralluoghi nel terremoto abruzzese, in quello emiliano, in quello della costa ecuadoriana dell’aprile 2016: visitare questi luoghi rappresenta un’esperienza esplosiva, sconvolgente, ben diversa dall’attitudine “scientifica” che ognuno di noi tiene sostenendo la propria teoria ragionevolmente formata su conoscenze, studi e convinzioni personali che contribuiscono normalmente a determinare una propria “metodologia astratta di intervento”.

Delle città azzerate dal sisma rimangono quasi solo i piani interrati come in una sorta di Pompei dei tempi moderni: rivelano una sequenza di pezzi di vita interrotta; letti sfatti, tavoli apparecchiati, gabinetti, culle e tutto quello che identifica una sorta di archeologia di un attimo.

È un’esistenza che non c’è più, svanita.

Questa immagine violenta e – per così dire – congelata, brucia in un attimo il bagaglio delle certezze che gli architetti hanno nel momento in cui sono chiamati ad intervenire.

 

Com’era, dov’era. Ma cosa era?

Nulla è certo dopo un terremoto. Non lo è la reazione della comunità colpita, la capacità di risollevarsi dell’economia, la tempistica nella disponibilità dei finanziamenti, oltre alla loro quantificazione. Intanto gli abitanti si riorganizzano, talvolta si spostano, ricominciano un’esistenza con modalità differenti rispetto a prima e talvolta irreversibili. Qualsiasi piano predeterminato è destinato al fallimento.

Sono molto perplesso di fronte a politici e architetti che delineano con assoluta certezza la teoria corretta degli interventi di ricostruzione. Se il “com’era, dov’era” sembra rappresentare la risposta più rassicurante, un’altra considerazione molto più cruda e reale la cancella in un attimo: è giusto dimenticare o rimuovere la memoria di un evento che, presumibilmente rappresenta il fatto più significativo della storia di una città? Siamo sicuri che il ritorno allo stato delle cose rappresenti la migliore cura per i suoi abitanti?

Nella medicina ricostruttiva non si può prescindere dalla capacità, quantomeno ipotizzata, del paziente di superare psicologicamente non solamente la relazione diretta con il trauma, ma anche quella indiretta con una identità alterata, talvolta nuova. La ricostruzione, riguarda molte competenze, non solamente la nostra.

Lo studio dei processi psichici, coscienti e inconsci, cognitivi (percezione, attenzione, memoria, linguaggio, pensiero) e dinamici (emozioni, motivazioni) è una delle attività più coinvolte dopo un catastrofe naturale: come una comunità può sopravvivere e ricominciare dopo un evento così traumatico? Coloro che hanno perso il lavoro, la famiglia, la casa, hanno in realtà smarrito una certezza anche molto più profonda rispetto all’esistenza stessa.

La fase che segue l’evento è normalmente piena di rassegnazione, di rimpianti, ma anche di una capacità di riconoscere gli errori e di confrontarsi per certi versi tutta nuova: come in un sorta di seduta psicoterapeutica collettiva, ogni attore pone sul tavolo delle riflessioni con molto più coraggio ed onestà rispetto al passato, come se non vi fosse più niente da nascondere, agli altri come a se stessi.

Le persone si rendono conto di non essere una sommatoria di realtà individuali ma una porzione di società in grado di fornire alla città un servizio collettivo irrinunciabile e la ricostruzione del tessuto sociale passa dall’architettura come da tempo forse noi stessi ci eravamo dimenticati che potesse avvenire. Come in un “Blu” Kieslowskiano l’evento tragico rappresenta anche la possibilità della scoperta o della rinascita.

“Com’era dov’era” è una risposta poco approfondita anche dal punto di vista economico.

Lo stallo dell’Aquila molto dipende, oltre che da quelli per il progetto CASE, anche dai costi sostenuti per la seconda messa in sicurezza, quella necessaria in un programma di ricostruzione tout court.

E poi quali strumenti abbiamo per ricostruire il patrimonio perduto in maniera filologicamente corretta? Inutile farsi illusioni: pochissimi sono gli edifici con un archivio di dati sufficiente a ricostruirlo in maniera veritiera. Il “com’era, dov’era” rischia davvero di essere il terreno d’espressione più fertile dell’edilizia da geometra di paese, fatto di gronde, cicogne e posticcio à gogo.

La città che c’era non esiste più! È meglio prenderne atto e pensarne una nuova, capace di rispettare il passato ma anche di esserne migliore.

 

Questione di tempo

A mio parere il tema delle due velocità è l’aspetto più significativo della ricostruzione. “Costruire bene” e “costruire subito” sono due concetti giusti, ma inesorabilmente conflittuali.

La storia ha impiegato secoli per darci ciò che abbiamo e, in questo caso, abbiamo perduto. Come possiamo pensare di essere in grado di ricostituire l’anima di una città in maniera istantanea?

Di contro le popolazioni colpite reclamano, con altrettanto diritto, di ripristinare le condizioni abitative, economiche, sociali nell’immediato. Dare una risposta a una delle due questioni compromette automaticamente l’altra.

Inoltre c’è da dire che il terremoto ogni volta coglie impreparati, non solo in Italia ma anche in paesi considerati più “attrezzati”, come il Giappone o il Cile. Le amministrazioni si trovano in una condizione di incapacità di gestire l’emergenza, i finanziamenti e le strategie di ricostruzione, di capire repentinamente la natura della città che abbandoniamo e la sua proiezione nel futuro. È assolutamente comprensibile. Quale dei sindaci dei centri colpiti, impegnandosi in questo ruolo a inizio del proprio mandato, poteva immaginare di dover gestire un evento di tale portata?

Nel corso degli anni della ricostruzione tutto cambia, la città ha una sua vita, o, meglio, una capacità o necessità autonoma di rigenerare le sue ferite modificando le proiezioni che noi abbiamo fatte.

Troppo spesso dimentichiamo che la città è un corpo sociale e che la forma fisica è soltanto una delle sue componenti. Considerando che l’indeterminazione è forse il vero denominatore comune di tutti i processi di ricostruzione, presumibilmente l’unica via d’uscita è quella di generare non un semplice piano, ma un modello in itinere, in maniera tale che sia l’evoluzione stessa della città ad accettare o rigettare le configurazioni che i pianificatori hanno immaginato e le decisioni si possano assestare in corso d’opera.

L’incertezza di cui parliamo non è una proprietà negativa, ma piuttosto una capacità di muoversi all’interno di un programma instabile, privo di sicurezze. Molti dei fattori in gioco possono essere riconosciuti solo durante il corso della ricostruzione e non permettono di avere un quadro chiuso dei dati necessari ad un pianificatore per immaginare in maniera corretta il futuro di una città. In quest’ottica ciò che avviene durante il tempo della seconda emergenza diventa fondamentale.

Mentre noi concentriamo i nostri sforzi e la nostra attenzione sulla città che era e su quella che sarà, intanto si genera una nuova vita intorno a quelle strutture, fornite dalla Protezione Civile o donate da chissà chi, che sono considerate “a termine”. Eppure molte amministrazioni non rinunceranno a spazi destinati alla collettività che divengono quindi un nuovo elemento da considerare, seppure privo di qualità architettonica.

Anziché accontentarsi di osservare questo fenomeno di sedimentazione “per inerzia”, caso tipico italiano, proviamo ad immaginare come si possa convertire questa grande potenzialità in un indotto positivo per la città.

Come nelle procedure staminali della medicina semplici cellule indifferenziate sono in grado di mutare a seconda del tessuto che vanno ad innestare, così possiamo immaginare che i moduli neutri della seconda emergenza possano essere pluripotenziali, consolidarsi nel corpo della città, darsi una funzione diversa, farsi principio di una rigenerazione in una maniera più progressiva, versatile, naturale, condivisa ed empatica di quella storicamente fallimentare del “com’era, dov’era” o della città nuova.

 

 

Per_approfondire

stem-procedureFranco Tagliabue Volonté, Nina Bassoli, Stem Procedure – Strategie di rigenerazione post sisma/Post Earthquake Regeneration Strategies, Maggioli Editore, 2016

Se la prima emergenza è un soccorso, la seconda è un supporto. Le strutture innestate in questo intervallo assumono un carattere simbolico eccezionale: non solo forniscono un supporto, ma racchiudono dentro di sé l’energia e la possibilità del riscatto. Rappresentano, in un certo senso, l’ultimo atto dell’emergenza ed il primo atto ricostruttivo. Un importante settore della ricerca medica è orientato allo sviluppo delle sperimentazioni operate con cellule staminali per la ricostruzione di tessuti biologici danneggiati da malattie terminali o degenerative, che non trovano risposta nella medicina tradizionale. La cellula staminale è un cellula primitiva non specializzata pluripotenziale, autorinnovante in grado di trasformarsi assumendo le caratteristiche del tessuto da riparare. Moduli prefabbricati indifferenziati della seconda emergenza, o le macerie stesse, innestati nel tessuto delle città devastato dal sisma, possono essere in grado di rigenerare il contesto urbano secondo un processo di differenziazione, specializzazione, mutazione, proliferazione ed induzione?

Autore

  • Franco Tagliabue Volonté

    Franco Tagliabue Volontè, titolare dello studio ifdesign di Milano, vincitore dell’Ecola Award di Berlino, CID Award di Chicago, del Premio Europeo dello Spazio Pubblico di Barcellona e di numerosi altri riconoscimenti, invitato alla Biennale di Venezia e alla Biennale di Shenzhen-Hong Kong, dal 2002 insegna Progettazione alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano ed è stato visiting professor all UTE di Quito. Invitato in seminari nazionali ed internazionali sul tema delle catastrofi naturali, partecipa al programma DAAD Disaster City TU Berlin- Politecnico di Milano e con la ricerca POST-DISASTER RECOVERY IN URBAN AREAS ad Habitat III In Ecuador, promosse da A. Gritti e R. d’Alencon, con cui si è impegnato nei programmi di ricostruzione in aiuto delle popolazioni colpite dal sisma dell’aprile 2016 della costa di Esmeralda in Ecuador. Ha scritto con Nina Bassoli il libro «Stem Procedure - Strategie di rigenerazione post-sisma» per Maggioli editore.

    Visualizza tutti gli articoli

About Author

(Visited 1.330 times, 1 visits today)
Share

Tag


,
Last modified: 12 Ottobre 2016