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Written by: Biennale di Venezia

Rapsodia veneziana

Rapsodia veneziana

Impressioni a caldo dell’equipe del nostro Giornale presente nei tre giorni della vernice della Biennale di Venezia

 

VENEZIA. La rapsodia è una composizione musicale che si presenta come un insieme di parti in sequenza, anche molto diverse fra loro e composte in modo libero, legate da un contesto tematico comune. Sbarcati sulla laguna veneziana per seguire l’anteprima della XV Biennale, dopo aver percorso l’Arsenale ed esserci insinuati fra i padiglioni dei Giardini, abbiamo composto fugacemente una “rapsodia” di commenti che, liberamente, raccontano da angolazioni diverse alcune delle nostre opinioni riguardo a come sia stato recepito il messaggio lanciato da Alejandro Aravena “Reporting from the front”. La rapsodia non vuole essere un commento esauriente della Biennale e deve essere vista come un complemento agli articoli e ai video che compongono l’articolato Biennale2016LIVE del Giornale dell’Architettura.

 

Marco Adriano Perletti_Reporting from the environmental front

Fra le tematiche indicate da Aravena ritroviamo alcune parole-chiave ricorrenti (e anche abusate) del vocabolario della questione ambientale globale contemporanea: la sostenibilità, i rifiuti, l’inquinamento, i disastri naturali. Alcune di esse sono presenti ed emergono in forma chiara nei padiglioni e nella mostra principale, come la sostenibilità ed i rifiuti, altre si palesano in forma discreta e avrebbero meritato maggiore attenzione. Il tema del rifiuto e le sue molteplici implicazioni di riuso e riciclo è sicuramente il più pervicace, ad esempio trattato in modo potente nel Thesis project del polacco Hugon Kowalski e in modo suggestivo negli allestimenti all’Arsenale.

Interessante e singolare l’incontro tra architettura e biologia, con esplorazione dei confini di una ricerca certamente originale che dà vita alle stimolanti sperimentazioni progettuali di “LifeObject“, nel padiglione d’Israele. Avvolgente e suggestiva l’angolazione proposta dal padiglione peruviano, dove i visitatori percorrono una strip d’immagini che parlano di uno dei luoghi planetari sacri alla natura, la foresta amazzonica. Inestimabile serbatoio di biodiversità, la foresta è al centro del “Plan Selva“, il progetto governativo qui presentato che prevede la realizzazione nei territori amazzonici di centinaia di scuole che permetteranno l’istruzione delle giovani generazioni.

Apologetico del luogo lagunare che ospita la Biennale è l’evento collaterale organizzato da Swedish Institute e intitolato “The forests of Venice“. Allestita simbolicamente nella Serra dei Giardini, la mostra propone una riflessione su quello che potrebbe essere un nuovo paesaggio urbano ecologico a partire, appunto, dalla lezione della perfetta simbiosi fra architettura, città e natura rappresentata da Venezia. La sensibilità che da sempre contraddistingue la cultura nordeuropea in quest’occasione si interroga su quale possa essere il nuovo equilibrio e quali le nuove modalità di confronto con gli elementi della natura, in un’era in cui una meraviglia della cultura italiana, qual è Venezia, può essere minacciata dalle prospettive di cambiamento climatico.

 

Alessandro Colombo_Pensiero biennale, cioè che cade ogni due anni

Mia nonna era solita rammentarmi che la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. Non so dove porti la strada che percorriamo in questi giorni nelle varie sedi della Biennale, ma sicuramente possiamo dire che è contornata di buoni padiglioni. Il rappel à l’ordre che Aravena ha lanciato dalla fine del mondo ha fatto scattare tutti sull’attenti e i report dal fronte sono fioccati precisi, puntuali e, soprattutto, ben costruiti. Quasi tutti hanno scoperto l’altra faccia della medaglia, le periferie, le scuole, l’architettura dal basso – quella che una volta si chiamava partecipata – l’autocostruzione, i materiali naturali, i volti degli umili e i luoghi non illuminati dai media. Siamo passati dalla Biennale delle archistar alla one archistar Biennale per arrivare alla noarchistarplease Biennale. Tutti abbiamo preso la scaletta che ci ha indicato Aravena e abbiamo salito i gradini per guardare il mondo da un nuovo (?) punto di vista. I padiglioni sono sensibili, attenti, ricchi di costruzioni in legno senza chiodi e solo a incastro, volte in mattoni, letti di terra, sacchi di iuta. Chi si avventura sui metalli ci ricorda una tradizione che risale al terzo millenio prima di Cristo.

Mi viene spontanea la domanda: ma ora che abbiamo fatto tutto questo? Il mio timore è che rimarremo la solita comunità globale di architetti che entra in una sala dove migliaia di spade di Damocle ci pendono minacciose sulla testa e diciamo “wow” solo perchè sono realizzate con profili di alluminio piegati che si dichiarano di recupero. Il mio timore è che abbiamo preso una facile strada per tornare a sentirci utili e a pensare di poter cambiare il mondo, ma alla fine rimarremo un’inguaribile categoria di pensatori, un poco sconsiderati, un poco ipocriti, alla quale il mondo può guardare, nel migliore dei casi, con benevolenza.

 

Zaira Magliozzi_Tra Arsenale e Giardini

Aravena ci racconta che “l’architettura deve dare forma ai luoghi dove vivono le persone: non è più complicato di questo ma non è neanche più semplice di questo“. E ci tiene subito a precisare che tutti gli allestimenti della sua Biennale sono frutto di materiali riciclati dalle altre Biennali. Come non si può essere d’accordo con il riciclo, il riuso e il non spreco? Ormai questa, da anni, non è una novità, è la frontiera su cui l’architettura si deve confrontare. Quello che però non è ancora chiaro, e neanche in questa Biennale mi sembra di vederlo, è se la nuova estetica che sta venendo fuori ha una sua qualità intrinseca o se, invece, non sia frutto di una moda del momento. Questa analisi, dal mio personale punto di vista, non emerge. Ma soprattutto è mancata la visione, quella dimensione onirica, quella capacità di ispirare che l’architettura deve continuare ad avere, oggi più che mai.

Ai Giardini si respira un grande fermento creativo: il tema assegnato da Aravena, “Reporting from the front”, qui è sempre interpretato molto liberamente e direi per fortuna. Allestimenti interessanti sono quelli della Danimarca, della Svizzera, della Spagna e dell’Olanda, perché da un lato interpretano tematiche cruciali e dall’altro c’è uno sfogo creativo molto interessante. Altri padiglioni che consiglio sono quelli dell’Inghilterra e della Germania, perche qui, anche se l’allestimento non è perfettamente riuscito, da un punto di vista architettonico, sono interessanti le tematiche. La Germania si concentra sulle città di arrivo dei migranti e dei rifugiati, guardando a tutta la produzione architettonica al riguardo, e l’Inghilterra si concentra invece sulle case del domani, analizzando e soprattutto proponendo modelli innovativi.

 

Michele Roda_architetti… da Biennale

Nel grande luna park della vernice Biennale 2016 s’intuiscono i prossimi futuri trend (pardon, fronts) del mondo architettonico:

1. Cosa sia la tanto citata comunità l’ha spiegato il padiglione Portogallo. Inaugurazione con tavolata in strada, baccalà come se piovesse, tutti i vicini a pranzo insieme. Vale più di mille cataloghi.

2. Prepariamoci ad un florilegio di mattoni e cartongesso. In tutte le forme possibili: texture, librerie, arredi, allestimenti. Tutto tranne che come pareti.

3. Architetti di tutto il mondo, i locali rifiuti non progettateli più! Sacchetti e cartoni, montagne di rifiuti e macerie son cool, utilizziamoli per arredare le nostre città!

4. “L’Expo è fashion, la Biennale è un lungo e progressivo percorso di ricerca”, dice il presidente Baratta. Almeno una differenza c’è: se volete visitare il Padiglione Giappone fatelo qua. Nemmeno 10 minuti di coda.

5. Se in una mostra che avete allestito nessuno riesce a leggere le didascalie perché sono troppo piccole, non preoccupatevi. L’ha fatto anche Aravena e, notte-tempo, hanno cambiato: da A4 ad A3, basta una stampante.

6. Si riusa tutto. Anche le vecchie vele ritrovate nell’arsenale di Istanbul. E ci si fanno delle stupende borsette, il must dei gadget 2016.

7. Il commento riassuntivo più pungente arriva dalle ultime file del Teatro Piccolo Arsenale durante la conferenza di presentazione. “Baratta adora Aravena. Sarà amore sincero o perché gli ha fatto spendere poco?”. Strategia da seguire per committenti importanti.

8. L’abbigliamento del prossimo biennio è deciso: senza una camicia bianca non sei architetto fashion. Per le donne il concorso è ancora aperto.

9. Qualsiasi cosa facciate parlate per slogan. Aravena lo scrive sui muri: “Architettura è occuparsi di dare forma ai luoghi in cui viviamo”. Fa riflettere che tutti o quasi fotografino e prendano appunti. Cosa pensavamo volesse dire?

10. Per qualche anno almeno non si parli più di città. Scomparsa o quasi: si discute di dettagli e materiali oppure di fenomeni sociali a scala planetaria. Ciò che sta in mezzo, non conta più. Almeno fino alla prossima Biennale.

 

Arianna Panarella_Viaggio tra i padiglioni

Il tema promosso da Aravena, “Reporting from the front”, è stato accolto e apprezzato dai curatori dei vari padiglioni, anche se qualche volta è stato interpretato con poca chiarezza.

Il nostro viaggio inizia in una “pesante nuvola” di cemento armato, un guscio per nulla poetico che ricerca nuove spazialità (Svizzera) per poi ritrovarci nuovamente nel mondo reale, speriamo possibile, fatto di progetti discreti e di qualità che cercano di risanare i legami tra persone, cose e territorio (Giappone). Dietro questa immagine di società felice c’è chi (Corea) tra calcoli e raffinatissimi grafici ci ricorda l’affannosa ricerca di superficie edificabile in una Seoul già con un’altissima densità e quindi, si guarda ai tetti! Come del resto fa anche qualcun altro (Finlandia), ma in modo più attento, pensando a soluzioni ad un problema forte come quello degli immigrati, ipotizzando “tetti alloggio” che si appoggiano sulla sommità di edifici che in futuro verrano realizzati per accogliere queste strutture. Nel nostro vagare tra i padiglioni, tra intenzioni più o meno buone per la nostra società, per fortuna qualcuno ci ricorda anche che esiste ancora la volontà di fare e la forza della comunità (Ungheria) e che non esistono solo le archistar. Un gruppo di giovani architetti ha recuperato un edificio fuori uso con la collaborazione della società e delle istituzioni sfruttando solo materiali trovati e ciò che veniva offerto, senza denaro. Concludiamo invece con chi ci ha ricordato gli effetti devastanti della bolla immobiliare e della recessione economica (Spagna) ma ci mostra anche progetti che rispondono alla crisi in modo positivo con un allestimento sobrio: si possono fare buone cose anche con materiali semplici come delle scatole di cartone.

 

Immagine di copertina: l’installazione di Transsolar alle Corderie dell’Arsenale (foto di Elena Franco)

 

 

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Last modified: 1 Giugno 2016