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Luca GibelloWritten by: Biennale di Venezia

I molteplici fronti dell’architettura non tradiscono le attese

I molteplici fronti dell’architettura non tradiscono le attese

Allestimenti di grande impatto, per comunicare anche ai non addetti ai lavori l’architettura come processo

 

VENEZIA. Pronti via, a un primo fugace sguardo la Biennale di Alejandro Aravena sembra non tradire le attese. Soprattutto, ed è la cosa che si temeva di più, nel mondo fluido dove tutto si sa ancora prima che accada, non è un déjà vu. Nella maggior parte dei casi, ciò vale anche per i lavori noti, riscattati però dagli allestimenti: taluni simbolici, ermetici ed evocativi, talaltri assai materici, talvolta entrambi. E la sfida del non rivolgersi solo agli addetti ai lavori è, almeno in parte, vinta.

Quali sono le frontiere che gli 88 invitati alla mostra principale, dislocata tra Corderie dell’Arsenale e Padiglione centrale ai Giardini, ci presentano? Eccone alcune in ordine decrescente d’interesse o di preponderanza.

1) Potenzialità dei materiali tra riuso, riciclo e opzioni alternative. L’antifona è chiara fin dall’ingresso, dove ci accolgono 100 tonnellate di materiali di risulta dal disallestimento della Biennale arte 2015: 10.000 mq di cartongessi e 14 km di strutture metalliche di supporto. Oppure, si progetta pensando alla seconda vita utile dei materiali impiegati nell’allestimento: come per gli statunitensi Rural Studio che destineranno, da novembre, pareti e panche del loro teatro – fatte da reti di materassi, armadietti e pannelli d’isolamento ancora imballati – ai senzatetto di una cooperativa di Marghera e alla ristrutturazione di housing sociale alla Giudecca.

Lo stesso dicasi per i pannelli di presentazione dei vari partecipanti: il cartongesso di cui sopra, issato su ferro d’armatura ancorato a un basamento in blocco laterizio; tutto pronto per un futuro cantiere!

Invece, guardando ai materiali cosiddetti poveri, il paraguaiano Solano Benitez propone una sorprendente struttura portante reticolare voltata a scala reale in mattoni crudi e cemento, mentre il colombiano Simon Velez va sul bambù e la tedesca Anna Heringer con la terra cruda.

1-pari merito) Domanda sociale di habitat. Migrazioni, conflitti, catastrofi naturali impongono di ripensare il rapporto tra effimero e permanente, tra nomadismo e sedentarietà. Le ricerche di Rahul Mehrotra sull’urbanizzazione temporanea di Kumbh Mela – festival indù svolto ogni 12 anni che raduna 5 milioni di persone per 55 giorni cui si aggiungono punte di flussi fino a 20 milioni – mettono in discussione lo stesso concetto di città.

2) Reinterpretazione di tipologie edilizie e tecniche costruttive tradizionali. Antidoto al globalismo omologante delle soluzioni tecnologiche e dei modelli insediativi, divengono anche occasione di autoconsapevolezza circa lo specifico “saper fare” delle maestranze. Pregasi soffermarsi sui cinesi controcorrente (dai Pritzker Amateur Architecture Studio al recupero degli hutong perseguito da Zhang Ke), sulle yurte rivisitate da Rural Urban Framework con l’Università di Hong Kong e sui lavori dei norvegesi Tyin Tegnestue, dei cileni GrupoTalca e degli indiani Studio Mumbai e Anupama Kundoo.

3) Rigenerazione urbana. Seppur forse un po’ inflazionato, il tema è sempre sulla breccia. Dal must della colombiana Medellín ai progetti di Ines Lobo per l’enclave degradata di Mouraria, nel cuore di Lisbona, agli happening dei britannici Studio Assemble, all’attualizzazione dello schema delle Maison Domino di Le Corbusier da parte dei tedeschi BeL, alle scuole sudafricane di Luyanda Mpahlwa, all’housing dei rumeni ADNBA, fino alle cure dei sistemi territoriali depressi da parte dei nipponici Bow-Wow. Casi non esattamente comparabili con gli eleganti interventi ticinesi di Luigi Snozzi a Monte Carasso e, tanto meno, con il recupero veneziano di Punta della dogana operato da Tadao Ando per François Pinault.

4) Tecnica e sperimentazione. Ricerche avanzate e capacità di sorprendere vanno a braccetto: nei volumi apparentemente massicci ma dal peso tendente a zero del tedesco Werner Sobek; nella poetica installazione «Lightscapes» che imita gli effetti di natura dei raggi solari in una foresta dei connazionali Transsolar; nell’audacia tettonica dei sistemi di copertura sollecitati a sola compressione di Block Research Group con il Politecnico di Zurigo.

E per quelli che non vivono a pane e impegno sociale? Tranquilli, c’è anche chi continua a lavorare sulle frontiere della speculazione teorica o dell’autoreferenzialità della forma, in nome dell’estetica pura e, talvolta, della monumentalità: dai portoghesi fratelli Mateus al russo Bernaskoni agli elvetici Christ & Gantenbein, al duo Barozzi Veiga, alla cilena Cecilia Puga, allo spagnolo Alonso de Santos. Insomma, il dibattito tra autonomia o eteronomia dell’architettura resta aperto.

E gli italiani? Eccezion fatta per TAMassociati, sono fatalmente marginali – seppur talvolta meno di altri colleghi europei. E i big? Quelli che abbiamo visto – gli altri sono disseminati qua e là nel bacino dell’Arsenale e non ci siamo ancora arrivati -, passano piuttosto inosservati. Compreso Renzo Piano che, un po’ decotto – al pari del compare Richard Rogers il quale, lì accanto, confeziona retorici aforismi -, allestisce lo spazio suo e del gruppo G124 per le periferie italiane come una mostra retrospettiva, con i modellini e le solite ordinate tavole: piante, prospetti, sezioni, schizzi, foto…

In conclusione, qual è lo stato di salute dell’architettura impegnata al fronte? Diremmo buono, nella misura in cui l’architetto riesce a orchestrare un percorso condiviso tra vari portatori d’interessi ed accantonare almeno un po’ il suo ego.

Immagine di copertina ©Elena Franco

Autore

  • Luca Gibello

    Nato a Biella (1970), nel 1996 si laurea presso il Politecnico di Torino, dove nel 2001 consegue il dottorato di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica. Ha svolto attività di ricerca sui temi della trasformazione delle aree industriali dismesse in Italia. Presso il Politecnico di Torino e l'Università di Trento ha tenuto corsi di Storia dell’architettura contemporanea e di Storia della critica e della letteratura architettonica. Collabora a “Il Giornale dell’Architettura” dalla sua fondazione nel 2002; dal 2004 ne è caporedattore e dal 2015 direttore. Oltre a saggi critici e storici, ha pubblicato libri e ha seguito il coordinamento scientifico-redazionale del "Dizionario dell’architettura del XX secolo" per l'Istituto dell’Enciclopedia Italiana (2003). Con "Cantieri d'alta quota. Breve storia della costruzione dei rifugi sulle Alpi" (2011, tradotto in francese e tedesco a cura del Club Alpino Svizzero nel 2014), primo studio sistematico sul tema, unisce l'interesse per la storia dell'architettura con la passione da sempre coltivata verso l’alpinismo (ha salito tutte le 82 vette delle Alpi sopra i 4000 metri). Nel 2012 ha fondato e da allora presiede l'associazione culturale Cantieri d'alta quota

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Last modified: 30 Giugno 2016