Ricordo dell’artista sardo, scultore delle pietre sonore che capiva l’architettura
Arrivando alla campagna di San Sperate (Cagliari), eri accolto da una selva di menhir che dai campi ti venivano incontro e ti circondavano in un attimo. Sembravano grandi pietre poste lì da un gigante: una sorta di Stonehenge del Mediterraneo. Ma ben presto ti accorgevi che il gigante era un piccolo ma forte uomo, un sardo che credeva nella materia, nella pietra. Pinuccio Sciola, scomparso il 13 maggio, amava portarti in questo luogo alla mattina presto in modo che la luce del sole arrivasse bassa a filtrare fra le pietre e ad aumentare il tuo senso di stupore. Erano pietre apparentemente grezze ma in verità colme di piccoli segni, di grande lavoro che il nostro piccolo gigante sardo compiva con le proprie mani; mani forti di scultore ma anche mani di grande lavoratore che aveva imparato con la propria fatica, con il proprio sudore a farsi avanti, a farsi riconoscere in un mondo, quello dell’arte, difficile e crudele soprattutto per chi, come lui, veniva da un’isola lontana da tutto.
Autodidatta, era arrivato negli anni settanta alla Biennale di Venezia passando per esperienze internazionali, come quella fondante e formativa in Messico con Siqueiros. Un giorno gli chiesi dei pezzi per allestire la sala della pietra al padiglione italiano all’Expo di Shanghai e lui mi riempì un container di materiali. In realtà erano tutte sculture ma per lui erano materiali che io avrei dovuto comporre nella sala di Shanghai. Quando cercai di schernirmi lui mi ricordò che ero un architetto, che quello era il mio mestiere. Questo fa capire come la visione di Sciola fosse fortemente compositiva, fortemente architettonica; una visione in cui il risultato scultoreo o plastico era il raggiungimento dell’organizzazione compiuta dello spazio e la scultura, la pietra, un vero e proprio materiale da costruzione, tanto da poter essere affidato anche ad altri – ovviamente corredato dalle sue istruzioni – per poter costruire uno spazio sempre nuovo, sempre diverso.
In lui c’era amore ma, anche, quel distacco che deve avere un costruttore, molto più di chi guarda ai propri pezzi come opere uniche. Questa sua attitudine gli ha permesso di lavorare in moltissimi campi, dal teatro alla città, dai musei alle sale da concerto. È ancora vivo il ricordo di un suo concerto a Milano ove in scena andarono le sue pietre suonate da musicisti. Lo ricordiamo così, nella sua campagna, con le sue pietre, intento a cogliere con l’aiuto della luce del sole il magico mondo dei suoni che scaturisce dalle forme.