Un caso unico di donna che ha attraversato alcuni dei momenti più importanti dello sviluppo dell’architettura italiana del secondo dopoguerra. A Trieste, con Luciano Semerani ha costituito un sodalizio umano e professionale durato più di sessant’anni
Ogni cittadino di qualunque strato sociale egli sia, si riconosce nella sua città perché i luoghi figurati conservano per tutti messaggi culturali, politici e affettivi. Allora contano più le figure delle quali siamo contornati, gli edifici, i palazzi o le attività che in essi si svolgono?
Gigetta Tamaro, Una città da a-mare, 1992 (in AA.VV., Trieste 1972-1917, Guida all’Architettura, a cura di Federica Rovello, MGS Press, Trieste 2007)
Posta di fronte al dilemma se sia possibile distinguere il momento teorico dal costruito, il singolo edificio dalla città in cui è inserito, il significato personale da quello collettivo, Gigetta Tamaro lasciò la domanda aperta mostrando una percezione comprensiva del compito dell’architettura in cui le relazioni contano più delle parti e la loro verifica è un lavoro che non termina mai. La ricerca di queste relazioni è stata la cifra della vita e dell’attività professionale di Tamaro che l’hanno vista vera protagonista di uno dei pochi momenti di traduzione nel reale delle premesse teoriche sviluppate dal gruppo degli allievi di Ernesto Natan Rogers nella redazione di «Casabella-Continuità» attraverso il suo lavoro con lo studio Semerani-Tamaro di Trieste.
Gigetta (al secolo Maria Luisa), nata a Trieste nel 1931 e qui spentasi la scorsa settimana, è stata un’originale figura di progettista e intellettuale, un caso unico di donna che ha attraversato alcuni dei momenti più importanti dello sviluppo dell’architettura italiana del secondo dopoguerra. Assieme al marito Luciano Semerani, Tamaro ha costituito un sodalizio umano e professionale durato più di sessant’anni fatto di progetti di architettura, di elaborazioni teoriche e di una famiglia con quattro figli. I due si erano conosciuti a Venezia dove Gigetta si laureò con Giuseppe Samonà nel 1958 e dove rimase qualche anno come assistente di Giancarlo De Carlo. Semerani era allievo di Rogers e lavorò nella redazione di «Casabella-Continuità» insieme ad Aldo Rossi e Guido Canella costituendo la base di quel “Gruppo architettura” che allo IUAV rinnovò il dibattito teorico, riscoprendo la fondazione disciplinare del mestiere nel dialogo con la storia e la città. Se Luciano era più il teorico, Gigetta era la figura che verificava le premesse nella pratica dei progetti e negli edifici. Nel duo, come ha ricordato Semerani, “Era lei l’architetto, io ero il professore”. Gigetta infatti, per scelta umana e operativa, decise di rinunciare all’insegnamento e di portare avanti lo studio professionale a Trieste, lasciando la parte comunicativa del lavoro a Luciano. Questo apparente passo indietro le diede l’indubbio vantaggio di poter verificare nei progetti e nel costruito le premesse teoriche condivise con il marito. In questa pratica “sul campo” sviluppò un’indubbia sensibilità nel relazionare forme astratte e figure specifiche, spazi e materiali, modelli teorici e identità sociale.
L’architettura di Tamaro e Semerani è segnata da un doppio registro con la compresenza di tipi astratti e momenti figurativi, di regole di continuità e di fughe espressive. In grandi complessi come l’acropoli dell’Ospedale di Cattinara a Trieste o in quello di San Giovanni e Paolo a Venezia, sviluppati per parti nel corso di decenni, Semerani e Tamaro elaborarono una collage city di elementi tipologici e di emergenze figurative capaci di dialogare tra loro e con l’esistente proprio grazie alla tensione dialettica tra continuità urbana e individualità architettoniche. Nel riuso di complessi esistenti come gli Archivi comunali nei palazzi Eisner e Civrani o nel terminal urbano posto nel grande silos ottocentesco accanto alla stazione ferroviaria, i due poterono affiancare una lettura contemporanea alla presenza dei grandi monumenti della Trieste neoclassica ed eclettica, loro fonte d’ispirazione. Nei progetti di riqualificazione degli spazi pubblici come piazza Sant’Antonio Nuovo a Trieste e il centro storico di Muggia, seguiti personalmente da Tamaro, venne sviluppata un’idea di continuità urbana e dignità civile degli elementi di arredo pubblico, evitando fughe individualistiche. Se il metodo progettuale portato avanti dal “Gruppo architettura” è stato criticato come “stilizzato”, troppo teorico e non sempre traducibile in costruzione, se esso appare oggi datato, è grazie a figure come Tamaro che questa valutazione è possibile. A quello che sembrava un modello teorico, Gigetta ha saputo dare spessore materiale, pubblico e temporale, facendosi carico della sua presenza nel mondo reale.
In questo umanesimo civile, non possiamo dimenticare anche l’attività di promozione culturale e istituzionale che Gigetta ha sempre affiancato al lavoro professionale e che include, tra altro, la costituzione del centro culturale “Stazione Rogers” nel restaurato distributore di benzina dei BBPR in Campo Marzio a Trieste, con un ricchissimo programma d’incontri multidisciplinari, la fondazione della sezione del Do.Co.Mo.Mo. Friuli Venezia Giulia, la carica di presidentessa dell’Ordine degli Architetti di Trieste e della Federazione Ordini degli Architetti del Friuli Venezia Giulia, portati avanti con passione per molti anni. Nella promozione di un dialogo aperto tra architettura, istituzioni, società e cultura, Tamaro ha svolto il ruolo fondamentale del professionista colto, rappresentante di una classe borghese illuminata e figlia della grande tradizione imprenditoriale di una città europea come Trieste.
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Last modified: 13 Aprile 2016