La presidentessa dell’Istituto Nazionale di Urbanistica anticipa i contenuti del pacchetto di proposte operative da sottoporre alle istituzioni nazionali e che verranno illustrate in occasione del ventinovesimo Congresso INU, in programma a Cagliari dal 28 al 30 aprile prossimi
Architetta Viviani, Lei è reduce da un “giro d’Italia” in visita alle varie sezioni dell’INU per capire le esigenze dei territori. Che cosa riguarderà il “Progetto Paese”?
Partiamo proprio dal racconto del Paese reale. Il “Progetto Paese” avrà come sottotitolo “L’urbanistica tra adattamenti climatici e sociali, innovazioni tecnologiche e nuove geografie istituzionali”. Dobbiamo ritornare a cogliere le interazioni fra le diverse politiche pubbliche, fra le capacità d’impresa privata e le capacità di governo, le interazioni fra i saperi professionali e accademici. Il “Progetto Paese” significa anche che questo Congresso INU sarà aperto. Abbiamo idee e proposte, ma sappiamo che nessuno può raggiungere la soluzione da solo. Invitiamo quindi altri a condividere il viaggio intrapreso in questi due anni, i dati che emergono dal Rapporto del Territorio 2016 e alcune traiettorie d’innovazione. Il “Progetto Paese” non è la definizione compiuta di un modello ma una serie di proposte, sostenute da tre parole chiave: adattamento, innovazione e geografia.
Come si declinano queste tre parole chiave?
Vogliamo spronare alla reale semplificazione delle regole, da intendere come le leggi che la società si dà, patti accompagnati da assunzione delle responsabilità. Adattamento si riferisce al grande cambiamento in cui siamo immersi: quello climatico e sociale. Si tratta di un mutamento al quale tendiamo a rispondere tramite modelli predeterminati e rigidi, perché riferiti a ciò che conosciamo già, e spesso non adeguati alle nuove condizioni di contesto. Siamo spinti dal desiderio di raggiungere un assetto pre-configurato. Tutto ci sembra straordinario e urgente. Noi dobbiamo invece darci tempo e obiettivi di qualità, declinare azioni monitorabili. Ad esempio, in merito all’adattamento climatico e sociale, vi è certo condivisione diffusa su contenimento nel consumo di suolo, rigenerazione urbana, sostenibilità ambientale ed ecologica. Il primo passo da fare è non considerarle più finalità generali bensì tre requisiti di progetto; un progetto non confinabile in parametri solo quantitativi o di settore ma al contempo architettonico, urbanistico, industriale, sociale, imprenditoriale. Ciò significa pensare alle dotazioni per la città futura utili al suo equilibrio eco-sistemico: il verde pubblico non solo come minimo inderogabile di superfici ma anche come ambiente urbano, in grado di assorbire il calore e le acque, di mutare al variare delle stagioni, di reagire alle pressioni climatiche, di generare socialità. Si tratta di una sfida coinvolgente che chiama a una creatività operativa e concreta. Lo stesso vale per l’adattamento sociale, questione che attiene ai diritti della vita urbana (cultura, formazione, salute, mobilità, sicurezza) per le popolazioni insediate e per quelle insediabili. I servizi da garantire devono essere plurimi e improntati alla massima accessibilità. L’innovazione aiuta: la tecnologia non è una griglia poggiata su un tessuto fragile perché ormai invecchiato, bensì un sostegno che rende le nostre città flessibili, più facili da “utilizzare”, più adattive e amicali, a fronte della velocità e dell’imprevedibilità dei cambiamenti. L’innovazione tecnologica incrementa anche le interazioni, le relazioni fra persone e luoghi, e così accompagna il cambiamento socio-culturale, quello del ruolo delle cittadinanze, quello delle economie e del lavoro.
Rispetto a ciò, come s’innesta il tema delle geografie?
È necessario allineare le diverse riforme in corso. Il disegno di riassetto istituzionale, con relative attribuzioni di competenze, deve corrispondere a un processo di pianificazione coerente, ove i territori riferiti ai diversi livelli di governo siano considerati una rete, un sistema integrato e interconnesso, di cui va colta la componente dinamica. Pianificazione e programmazione della spesa devono convergere come azioni per la messa in opera di strategie urbane. Le politiche pubbliche vanno integrate: sicurezza dei suoli, insediamenti umani, sviluppo rurale e turismo, protezione dei beni culturali. Al governo diciamo dunque: andiamo avanti con le riforme ma semplifichiamole. Ripensare gli assetti istituzionali nel territorio policentrico italiano significa non separare gli ambiti metropolitani dalle aree interne, non dimenticare le città medie, non dividere centri storici e periferie, città e campagna.
Per questo presenterete il Rapporto del territorio 2016 realizzato con il CRESME, mettendo a disposizione molti dati.
L’invito è quello di lavorare in rete, mettere a disposizione conoscenze e saperi esperti, patrimoni collettivi che ci raccontano l’Italia. Il Rapporto aiuta anche a comprendere che la pianificazione può essere un indicatore di propensione al futuro, può interpretare e rappresentare scenari non prevedibili ma prospettabili.
Può meglio spiegare il pacchetto di proposte aperte che offrirete?
Se dovessimo discutere di tesi che nell’Istituto sentissimo solo “nostre” o ancora da chiarire, allora faremmo un congresso chiuso. Ma l’INU ha un patrimonio consolidato e molte attività di ricerca e di sperimentazione da utilizzare per rimodulare il governo del territorio a fronte del profondo cambiamento di prospettive. Siamo immersi nel cambiamento e l’urbanistica non è estranea. Abbiamo idee che vogliamo condividere per un’agenda: è questo il “Progetto Paese”. Riguarda la possibilità, attraverso i progetti urbanistici e territoriali, di attuare politiche pubbliche in grado di modificare le condizioni di convivenza. Sono proposte finalizzate a superare le conflittualità spesso insite nella filiera istituzionale: ad esempio, tra tutela dell’ambiente e pianificazione dello sviluppo urbano, tra salvaguardia del paesaggio e sviluppo economico. Non sono termini antitetici: la conservazione attiva dei nostri patrimoni permette d’indicare traiettorie di progetto. Troppo spesso la materia è affrontata in via frammentaria; prevale ancora l’attenzione agli aspetti edilizi. Occorre ripartire dagli obiettivi, la cui definizione presuppone il concorso e la responsabilità di tutti al loro perseguimento, per contemperare in modo appropriato e coerente gli interessi differenziati, pubblici e privati. Va assunto un approccio a rete e non più piramidale delle decisioni, dove però siano chiari i compiti. Proponiamo che lo Stato produca pochi ma incisivi codici legislativi su ambiente, paesaggio e territorio; che definisca agende nazionali per le città e le infrastrutture. Solo così si potranno promuovere politiche pubbliche che garantiscano uguali diritti sul territorio nazionale, con un linguaggio unitario e priorità condivise. Le Regioni dovrebbero coordinare programmazioni territoriali e di spesa, per garantire l’integrazione nei settori della sicurezza dei suoli, della valorizzazione dei patrimoni culturali, delle reti naturalistiche, della formazione giovanile, del sostegno al lavoro.
Rispetto al grande tema del governo locale, in che relazione dovrebbero porsi tali politiche?
Le relazioni fra Stato, Regioni, Comuni, Unioni dei Comuni e Città Metropolitane vanno ridefinite in riferimento alle finalità di ogni diverso ente, secondo geografie variabili che permettano una pianificazione capace di interpretare il futuro, corrispondente a quelle relazioni e alle caratteristiche del territorio italiano: policentrico, fortemente caratterizzato dalle culture e dalle risorse locali. La Città Metropolitana, non più come le vecchie province, deve intendersi come un attore paritetico rispetto alla Regione, in grado di produrre anch’essa politiche pubbliche. Inoltre sarà necessaria una rete di Comuni riorganizzata per aree vaste, per finalità, per funzioni. Le Municipalità dovrebbero essere soggetti di presidio democratico locale per riorganizzare forme urbane con una forte aderenza all’espressione delle comunità. Pensiamo ad esempio ai centri storici minori, che non possono trasformarsi tutti in borghi alberghieri di lusso; alle città storiche eccellenti, che non possono museificarsi o avere un futuro solo commerciale e turistico. Tutte possono offrire casa e servizi, ospitare produzione e lavoro. Va quindi riaperto anche il capitolo delle tante città storiche del nostro Paese.
Ma, nello specifico disciplinare, come va rinnovata la “cassetta degli attrezzi” dell’urbanista?
Facciamo due proposte. La prima riguarda gli standard: occorre passare dalla quantità alla qualità, dai metri quadri per abitante alle prestazioni ecosistemiche. A Milano, nel mese di novembre, durante la nostra manifestazione Urbanpromo, abbiamo lanciato i “nuovi standard per nuovi bisogni”. Riaprire la pagina degli standard è, per l’INU, occasione per riportare nella cultura urbanistica la centralità delle questioni sociali. Per la città in espansione, oggetto dei piani regolatori del Novecento, il diritto a quote inderogabili di verde, parcheggi e attrezzature pubbliche ha rappresentato una conquista della cultura urbanistica. Oggi va resa funzionale alla città da riqualificare, oggetto dei piani del XXI secolo. La seconda proposta punta a ridurre la proliferazione dei piani cosiddetti deboli, non promanatori di progetti né sostenuti da risorse disponibili e spendibili. La pianificazione territoriale può diventare il telaio delle politiche utili in materia di paesaggio, ambiente e infrastrutture, generatore di progetti sostenuti da risorse, alla scala dell’area vasta (Unione dei Comuni, Città Metropolitana), anche variabile rispetto agli obiettivi specifici (a ciò valgano accordi e perequazione a scala territoriale). L’urbanistica operativa deve essere efficace strumento per la rigenerazione urbana, una programmazione flessibile ma a tempo determinato, sorretta da investimenti corretti nel partenariato pubblico privato, ove valori sociali e ambientali siano integrati nei conti economici.
Quindi è giusta la strada dei programmi complessi e dei piani strategici o bisogna andare oltre? Ma la legge urbanistica quadro è ancora quella del 1942…
Il limite del sistema prefigurato dalla legge del 1942, funzionale alla crescita urbana e relativo all’elaborazione di assetto basata sul principio di conformità, è evidente. La lezione dei programmi complessi va considerata. Dato che operiamo sulla città esistente, dobbiamo ricominciare a lavorare con il progetto urbanistico che ci siamo dimenticati. Il piano attuativo si è trasformato in una grossa pratica edilizia. Invece i programmi complessi ci hanno insegnato che dobbiamo saper gestire la molteplicità dei valori in gioco. L’Europa chiede d’investire proprio su questi tipi di progetti urbani, che comprendono la fattibilità economica e l’individuazione degli attori, e d’inserire nei processi di trasformazione l’aspetto gestionale. Occorre dunque ripartire da qui, in parte riprendendo i “vecchi attrezzi” dei piani particolareggiati e dei piani attuativi per ambiti urbani definiti, onde superare in via definitiva l’azzonamento e la predeterminazione di assetto. La città non può essere riqualificata tutta insieme, in un solo disegno e in un solo tempo. Modificare le condizioni di convivenza significa anche investire in qualità e promuovere comportamenti urbani; ritengo che il termine “urbanità” sia positivo: richiama la cortesia, il decoro, il sapere vivere insieme.
Tutti si scagliano contro il consumo di suolo ma in realtà le pubbliche amministrazioni che ne hanno fatto una bandiera di governo del territorio sono pochissime…
È giunto il momento di dire basta. Anche se il conto finanziario – grazie agli introiti degli oneri di urbanizzazione – serve per erogare servizi alla cittadinanza, ciò non vale il danno ambientale che stiamo producendo. Però dobbiamo essere propositivi: non possiamo soltanto fermare il consumo di suolo, né continuare a tagliare gli investimenti, bensì dotare le amministrazioni delle risorse per progettare la riqualificazione della città. Dobbiamo premiare chi lo fa e penalizzare chi non lo fa. Occorre agire sulle scarse capacità di investimento e sull’inadeguatezza, culturale prima che tecnica, dei progetti per le città.
Anche con misure di fiscalità?
Assolutamente sì. Quando dico che occorre unire programmazione di spesa e programmazione territoriale e urbanistica, rendere coesa la filiera pubblica e far convergere gli interessi generali e quelli individuali, penso ai profitti e non alle rendite, alla redistribuzione dei valori urbani prodotti. Il che significa anche dire che le risorse spendibili vanno a chi s’impegna a usarle per certi tipi d’interventi e non per altri.
Chi è la presidentessa dell’Istituto Nazionale di Urbanistica
Silvia Viviani (Firenze, 1959) è in carica dal dicembre 2013, dopo essere stata vicepresidente nazionale dal 2011 al 2013. Titolare di uno studio professionale di architettura, urbanistica e pianificazione a Firenze, è progettista di piani strutturali e regolamenti urbanistici comunali, piani territoriali di coordinamento provinciali (tra i quali quelli di Siena e Grosseto), piani di centri storici e di parchi. Svolge attività di valutazione di piani e progetti. Si è occupata di valutazione in ambiti di ricerca quali il progetto Interreg IIIB Medocc “Evaluation Environnementale des plans et programmes – ENPLAN” (2003) e per l’Università di Firenze nel Programma d’area per la valutazione degli investimenti strategici nelle grandi aree urbane degradate (2006). Autrice di testi in pubblicazioni e riviste specializzate, è stata docente a contratto presso la Facoltà di Architettura di Firenze dal 2006 al 2009. Svolge attività formativa per enti locali e docenze in master post universitari e corsi di perfezionamento.
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rigenerazione urbana , territorio fragile
Last modified: 13 Marzo 2016
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