Quinta puntata dell’inchiesta con un’intervista a Federico Lacche, responsabile editoriale e di redazione di Libera Radio
Federico Lacche, 53 anni, vive a Bologna da oltre 30. Dal 2004 lavora a Radio Città del Capo e a Libera Radio, testata giornalistica d’informazione sulla legalità e contro le mafie (entrambe liberamente edite dalla cooperativa Open Group di Bologna). Dal 2011 cura i laboratori radiofonici sui temi delle mafie nelle scuole e nei centri di aggregazione, per dare voce ai giovani che poi proprio in radio realizzano dei loro programmi su questi temi. Da alcuni anni è anche referente per l’informazione dell’associazione Libera dell’Emilia-Romagna.
Tracciamo un breve quadro della presenza delle mafie in Emilia-Romagna. Un rapporto della Camera di commercio di Reggio Emilia del 2012 parla di alto rischio di colonizzazione mafiosa in regione, dovuto alla ricchezza del tessuto economico.
Più che di presenza si può parlare di un’occupazione vera e propria. Ne rintracciamo le origini già dagli anni 70, non è un fenomeno recente. Fu la legge scellerata del soggiorno obbligato che portò in Emilia-Romagna anche rappresentanti di spicco delle organizzazioni criminali siciliane, calabresi o campane. Dunque, da almeno 30 anni abbiamo la presenza di tutti i cartelli mafiosi che sono qui per fare affari. I territori sono segnati da diverse presenze: indicativamente, quelli di Modena e della Romagna si caratterizzano per quelle di stampo camorristico; Reggio Emilia, parte della Romagna e Parma dalla ‘ndrangheta calabrese. Tali presenze si sono amalgamate tra loro: cartelli che se storicamente erano anche venuti in conflitto, qui invece hanno trovato i modi per fare affari insieme. Lo dimostrano le inchieste di questi anni. Questo non toglie che la loro natura sia rimasta anche violenta: minacce, intimidazioni, incendi, pestaggi soprattutto agli imprenditori. In qualche caso si sono espressi con intensità paragonabili a quelle delle zone di origine.
Quali sono i reati più diffusi legati al mondo dell’edilizia? Mi vengono in mente l’infiltrazione nelle imprese, gli appalti, il mercato immobiliare, il ciclo del cemento e dei rifiuti, il traffico di beni culturali, ecc.
Qui la malavita ripulisce il denaro derivante da attività criminali (narcotraffico, traffico di esseri umani, armi, ecc.) e lo reinveste in attività lecite, imprenditoriali (edilizia, trasporto, smaltimento rifiuti, gioco d’azzardo); soprattutto, fornisce servizi agli imprenditori del territorio (prestiti di liquidità – che poi diventano usura -, recupero crediti, fornitura di servizi a basso costo). Queste presenze sono ormai profondamente radicate, alcune inchieste (come la recente Aemilia) testimoniano anche un certo grado di autonomia rispetto ai clan di origine. Si tratta di un fenomeno di non facile comprensione per i cittadini che stentano anche a trovare un’informazione pronta e attenta a quanto avviene al di là delle cronache. C’è una certa sottovalutazione del fenomeno come problema strutturale dei territori; persiste una visione che minimizza o parla di emergenze. Invece, basta guardare al processo Aemilia [il primo maxi-processo nel nord Italia, con oltre 200 imputati e molte parti civili, in corso a Reggio Emilia per chi ha scelto il rito ordinario e a Bologna per chi lo ha scelto abbreviato; nel capoluogo emiliano la Regione, fino a febbraio, aveva messo a disposizione per le udienze un padiglione della Fiera; n.d.a.]. Il processo Aemilia ci offre un quadro – solo la punta dell’iceberg, in verità, come affermano i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Bologna – più ampio e coerente di quel che succede. Gli imprenditori e i professionisti non hanno un’adeguata percezione del fenomeno e non sono sufficientemente responsabilizzati; non si sono preoccupati eccessivamente e in moltissimi casi hanno consapevolmente aperto le porte alla criminalità. Criminalità che ormai ha penetrato ogni settore dell’economia e anche – ed è molto grave – la politica [l’inchiesta Aemilia parla di condizionamenti in occasione di diverse consultazioni elettorali; n.d.a.]. Non c’è settore economico estraneo alle infiltrazioni mafiose. I mondi dell’edilizia e dell’autotrasporto sono sicuramente stati i primi a essere colpiti, e in modo più grave rispetto ad altri.
Parliamo della ricostruzione post-sisma del 2012: le mafie sono state a guardare? Già in passato alcuni processi, come Grande drago ed Edilpiovra, hanno toccato il mondo dell’edilizia.
Dal processo Aemilia emerge che la movimentazione della terra nel post-terremoto ha visto un coinvolgimento di aziende direttamente o indirettamente vicine alla criminalità mafiosa. Il terremoto è stata un’occasione golosa che i clan non si sono lasciati scappare. Nel post-terremoto c’è stata una sottovalutazione del problema da parte delle pubbliche amministrazioni. Quanto meno, sono state disattente e in qualche caso non hanno utilizzato gli strumenti necessari per una maggiore autotutela che pur possiedono; hanno lasciato che appalti e settori economici importanti venissero contaminati dalla criminalità praticamente senza reagire. Sugli appalti, la Regione ha cercato di porre rimedio con la legge 11/2010 (Disposizioni per la promozione della legalità e della semplificazione nel settore edile e delle costruzioni a committenza pubblica e privata); è la legge nazionale in materia che è “sbagliata”. Con il terremoto, sono stati concessi con facilità appalti ad alcune ditte (sempre le stesse), grazie al ricorso alle misure d’urgenza; le aziende con nomi emiliani poi subappaltavano a ditte in mano alla criminalità, alle quali i magistrati affermano non venissero in qualche caso richieste le minime garanzie antimafia (banalmente, il certificato). Alcuni parlano di mala gestione degli appalti da parte di alcuni soggetti dentro le pubbliche amministrazioni, ma non è così semplice.
Qual è stato il ruolo dei professionisti del settore?
Aemilia non è il processo a un clan bensì a un sistema, a un mostro dalle tante teste, una per ogni territorio coinvolto. Anche il mondo delle professioni è stato ampiamente toccato dall’inchiesta: giornalisti, commercialisti, consulenti del lavoro, ecc. Nel processo Black Monkey – relativo al gioco d’azzardo legale e illegale – sono coinvolti anche ingegneri informatici e appartenenti alle forze dell’ordine. I professionisti erano consapevoli di chi erano gli interlocutori. Allo stesso modo anche le imprese erano coscienti quando andavano ad approvvigionarsi di denaro, di mezzi o di persone (con cifre ridotte all’osso, impossibile non si siano poste delle domande). Senza rendersi conto che mettersi in affari con la criminalità significa avallare un mercato senza regole, consentire una concorrenza sleale. Gli appalti oggi li vincono aziende emiliane perchè la criminalità ormai parla il nostro dialetto; non è più così facilmente identificabile come un tempo, si mimetizza perfettamente. Generalmente tiene un basso profilo, tende a far prevalere gli affari, non vuole accendere i riflettori su di sé; però, se c’è da far arrivare un messaggio chiaro, minacciano e diventano anche violenti. Le imprese “normali” si sono affidate alle mafie per essere più competitive e aggressive sul mercato. Le ricadute di ciò poi si fanno sentire su tutta la collettività: le imprese che stanno alle regole vengono rigettate da un mercato che non le riconosce più, lasciando a casa i lavoratori e non facendo lavorare più i professionisti onesti. È stata sdoganata una mentalità negli ultimi anni: quella del più furbo. Chi si fa coinvolgere dalle mafie resta però prima o poi scottato: in molti casi perde tutto (si viene estromessi dalle proprie aziende oppure ci sono le confische da parte dello Stato, ecc.) e rischia di finire in galera a lungo. Nel processo Aemilia, come tradizionalmente avviene nelle aule giudiziarie del nord Italia, non sarà facile dimostrare il reato di associazione mafiosa per gli imputati. Gli avvocati della difesa hanno chiesto subito di spostare il processo in Calabria (“la mafia in Emilia-Romagna non esiste”, sostengono) ma i giudici hanno rigettato la richiesta. La Direzione nazionale antimafia ha affermato che l’Emilia è “terra di mafia”. Qui si manifesta in modo diverso: è una mafia imprenditoriale, modernissima; fa uso di competenze, professioni, relazioni e tecnologie per poter realizzare i propri interessi ma al contempo mantiene anche certi elementi arcaici delle strutture originarie.
La sudditanza culturale di alcuni territori della regione è diventata tangibile, c’è omertà, non si denuncia più, si pensa sia meglio farsi i fatti propri. Un tempo le estorsioni avvenivano solo alle attività di persone del sud; gli emiliani reagivano, si difendevano; oggi non più: pagano e tacciono. E inoltre, come detto, cercano addirittura le organizzazioni criminali per competere meglio sul mercato. Abbiamo anche amministratori pubblici che parlano di pluripregiudicati come di persone “educate, tranquille, che non hanno mai dato fastidio a nessuno”. D’altro canto ci sono giornalisti minacciati e sotto scorta. È grave.
Come difendersi e come contrastare le mafie?
Il precariato lavorativo, la furbizia imprenditoriale, lo sdoganamento di certi atteggiamenti non fanno altro che favorire l’attecchimento delle mafie. La legalità a tutta prima non sembra conveniente, bisogna stare a certe regole. Fare affari con la mafia invece sembra conveniente, può fruttare parecchio in termini economici. Bisogna però comprendere che legalità significa difendere e ribadire i diritti fondamentali: lavoro, salute, ambiente, informazione; dare forma al futuro che desideriamo per i nostri figli. Ai professionisti e imprenditori conviene capire invece che le aziende colluse con le mafie finiscono male. È un problema di tipo culturale. Perciò è fondamentale la conoscenza del fenomeno, fin da giovani. Per questo Libera Radio entra nelle scuole a fare informazione, a parlare di lavoro, di legalità. Come del resto ha fatto per prima e da 20 anni l’associazione Libera di Don Ciotti.
La politica purtroppo non dà sempre buoni segnali; sovente si pronuncia dopo il lavoro della magistratura. O s’incomincia davvero a fare politiche sul lavoro, sulla cultura, sui giovani, sul credito alle imprese, anche sul gioco d’azzardo (oggi l’Eldorado delle mafie), o non si va da nessuna parte. Il contrasto non può essere solo quello delle forze dell’ordine e dei tribunali, che è moltissimo, certo, ma è anche troppo poco. Gli imprenditori e i professionisti non si nascondano dietro un dito, sanno benissimo che tipo di scelte fanno; se le fanno comunque, sappiano che il prezzo da pagare sarà altissimo. Non possiamo più affrontare il tema in termini di emergenza, è un fenomeno strutturale, bisogna ammetterlo. Qui non abbiamo maturato ancora gli anticorpi a questo fenomeno cancerogeno; non sappiamo come funzionano le mafie, questo bisogna riconoscerlo, anche pubblicamente. E partire da lì. Dall’altra parte, i magistrati invitano a denunciare di più, per nutrire costantemente l’azione repressiva.
Concludiamo con alcune note positive: che cosa si registra di buono in questo ambito? Pensiamo ai beni confiscati nel nostro territorio, ad esempio.
Negli ultimi anni sono aumentati notevolmente. Segno di un’azione repressiva che in regione ha registrato una significativa accelerazione. Ora è importante che tornino alle comunità a cui erano stati sottratti, che vengano reimpiegati anche per un uso sociale, come insegna Libera. È positivo anche l’interesse e la partecipazione crescenti dei giovani: ne sanno spesso di più dei loro genitori. Anche la legge regionale 3/2011 (Misure per l’attuazione coordinata delle politiche regionali a favore della prevenzione del crimine organizzato e mafioso, nonché per la promozione della cultura della legalità e della cittadinanza responsabile) va nella giusta direzione. Partecipare e informarsi, per tutti, è il primo passo da compiere. Dobbiamo pretendere un’informazione più puntuale sui mezzi di comunicazione, così che non si spengano mai i riflettori sul fenomeno.
I programmi di Libera Radio possono essere ascoltati sulle frequenze di Radio Città del Capo di Bologna (Popolare Network) o in streaming su www.rcdc.it.
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Last modified: 2 Marzo 2016
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