Inchiesta a quasi 4 anni dal sisma: nonostante la diversità dei contesti e dei governi, tanto il terremoto dell’Aquila quanto quello dell’Emilia-Romagna testimoniano il fallimento della politica verso la salvaguardia di paesaggi feriti
A 4 anni dal doppio terremoto che il 20 e 29 maggio 2012 ha colpito la pianura padana, il Giornale dell’Architettura apre con questo articolo un’inchiesta sulla ricostruzione. Con cadenza settimanale, svariati contributi analizzeranno gli aspetti procedurali, progettuali, strategici e i relativi risultati a cui si è pervenuti ad oggi, tra obiettivi raggiunti ed occasioni mancate. Si tratta indubbiamente di una verifica di medio periodo, perché per un evento tanto traumatico ai risultati definitivi della ricostruzione occorre dare un vantaggio di almeno una decina d’anni. Tuttavia, un profilo per i processi di gestione ed i loro risultati già inizia ad emergere dall’ampio territorio scosso dal sisma.
Occorre tenere innanzitutto in considerazione la natura specifica del paesaggio sul quale lo sciame sismico si è abbattuto. Un terremoto è un evento che acquisisce un volto in relazione al territorio che investe, e il primo dato che va sottolineato è che, nella lunga storia della sismicità della penisola, qui il sisma ha investito un’area comunemente ritenuta a basso rischio (nonostante la classificazione sismica 2 a seguito del DPCM 21 ottobre 2003). Il terremoto del novembre 1570 era una memoria da specialisti, mentre la popolazione considerava il territorio sicuro anche per comparazione al vicino Appennino dove il sisma è un ospite abituale, seppure di minore intensità media.
Il sisma ha colpito tre regioni – Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto – con un danno aggravato dal fatto che il cratere sismico è il bacino di produzione di più del 2% del PIL annuo italiano: il danno è stato quindi amplificato da quello arrecato al sistema produttivo. E’ stata questa la ragione dell’istantanea reazione in termini di fattibilità, definendo le priorità della ricostruzione a discapito di una flagellazione del territorio non più recuperabile.
Quello colpito è un paesaggio di piccoli centri sparsi, case e unità produttive diffuse su una trama infrastrutturale di antichissima sedimentazione, innervata ad un complesso sistema idrico a scolare a mare questo ampio vassoio alluvionale, contraddistinto non solo da bassa pendenza, ma anche da alcune zone depresse.
La pluralità intrinseca di questo territorio è stata ulteriormente amplificata all’indomani del sisma, quando gli eventi hanno calamitato l’attenzione di molti enti, istituzioni e altre risorse potenziali, talvolta difficili da organizzare in un sistema unitario per risultati di medio e lungo periodo. Tra queste senz’altro le Università. Il cratere del sisma è stato anche un laboratorio per la ricerca sull’architettura e sulla pianificazione di emergenza con iniziative avviate da una moltitudine di poli universitari tanto per l’area della tecnologia e della tecnica delle costruzioni, quanto per quella della composizione architettonica e del restauro. Prime tra tutte sono intervenute le Università più prossime all’area, e dunque Bologna, Ferrara, Venezia, Parma, Milano, ma anche contributi di studenti dell’Università di Catania e di Trieste sono giunti nei mesi immediatamente seguenti al sisma. Si tratta di energie e competenze spese sull’onda di un importante solidarismo che tuttavia nella maggior parte dei casi le Amministrazioni e le figure decisionali hanno fatto fatica a capitalizzare e che, talvolta, è altrettanto precocemente svanito al prevalere delle distanze e delle difficoltà organizzative. La solidarietà si è manifestata anche in altre forme: gruppi organizzati di professionisti hanno prestato sin dai primi momenti gratuitamente la loro opera per far fronte all’emergenza. Abbiamo sentito la loro esperienza.
Luci ed ombre si intersecano in un gioco di chiaroscuri, e al volontariato si oppone la tenaglia dell’infiltrazione mafiosa nella gestione degli appalti d’urgenza, con il maxiprocesso Aemilia che ha scosso la Regione al pari del terremoto, portando in aula più di duecento imputati a svelare improvvisamente una rete criminale che, pur essendo già documentata dalla magistratura, era ampiamente sottovalutata dall’opinione pubblica e, cosa ancor più grave, dalle pubbliche amministrazioni.
Ciò non di meno, vero è che nell’arco di tre mesi dal sisma tutte le strutture pubbliche sono state ripristinate in contenitori temporanei (o pseudo-temporanei) che hanno consentito la permanenza delle istituzioni e della popolazione sul territorio. Questa sollecitudine, certamente encomiabile, non è stata tuttavia in grado di collocare sul terreno interventi architettonici rilevanti e per tali città parallele nate in pochi mesi è difficile ora immaginare un futuro, quando – si auspica – gli edifici pubblici saranno ripristinati. I progetti con una riconoscibile forza “fondativa” dopo l’evento traumatico sono pochi e alla qualità ha prevalso decisamente la quantità.
Ugualmente in relazione all’edilizia privata: gli interventi sono stati classificati in un ventaglio che da A ad E vede nelle ultime lettere i danni maggiori. Si tratta di interventi numerosi ma certo inferiori ai moltissimi che si contano in fascia A e B per i quali si sarebbe potuto attivare un dialogo più dinamico con il territorio ed i suoi professionisti, in un’ottica di più ampia condivisione delle opportunità professionali che sono invece rimaste concentrate su un insieme limitato di progettisti.
La pluralità dei centri colpiti significa anche pluralità di amministrazioni e conseguente pluralità di strategie. Tra queste si devono segnalare finalmente i concorsi, sia quelli conclusi che quelli prossimi a compiersi, i cui esiti a volte incerti denotano purtroppo le difficoltà con cui tali strumenti sono stati pensati e gestiti: un’occasione persa per ripensare importanti luoghi rappresentativi. Ne prenderemo in considerazione alcuni tra i più significativi.
Si può leggere poi il sisma anche come un’importante opportunità di ripensamento delle relazioni tra territorio e servizi ai cittadini. Vanno in questo senso la rete delle micro-residenze assistite diffuse promosso dall’architetto Mauro Frate con l’ASP Modena Nord per affrontare in modo innovativo il tema dell’assistenza domiciliare degli anziani; oppure l’esperienza del workshop con giovani laureati gestito da Mario Cucinella per conto di Confindustria. In senso opposto il nesso tra terremoto e chiese, che si deve anche leggere in una relazione talvolta conflittuale tra curie e soprintendenze, queste ultime sempre più orientate alla tutela e alla conservazione, le prime talvolta grate ad un evento che, intervenuto nella notte, ha distrutto senza lutti edifici ormai ridotti a fonti di spesa piuttosto che di utilità pastorale.
Puntualmente, sul patrimonio monumentale storico e classificato, restano i segni del trauma. Il duomo di Mirandola, la torre e il Castello di Finale Emilia sembrano bandiere a mezz’asta, insieme agli interni perduti immortalati nelle foto di Giovanni Chiaramonte [alcune qui gentilmente concesse; in copertina, casale di campagna a Cavezzo (copyright ULTREYA)] in una mostra che esporta il paesaggio emiliano ferito in tutta Europa, rievocando l’atmosfera delle foto di Luigi Ghirri o dei racconti di Gianni Celati.
Ma è proprio questo paesaggio che la strategia politica della ricostruzione ferisce inesorabilmente. La certificazione di un danno è sufficiente a decretare la caduta dei vincoli di tutela e ad avviare così veloci procedure di demolizione e più lente procedure di nuova costruzione. La sintassi su cui il paesaggio emiliano trovava un equilibrio tra il suo sistema naturalistico e produttivo (ossia la casa, con la stalla e il granaio, talvolta straordinari edifici disegnati dal Dotti), come ha giustamente lamentato Italia Nostra è andata in frantumi anche nei casi in cui presentava danni minimi. L’asseverazione di un tecnico è stata sufficiente a cancellare uno stralcio del paesaggio, conservatosi nei secoli e ora puntualmente devastato da una ricostruzione più dannosa del terremoto stesso.
In questo senso, relativamente al paesaggio diffuso, nonostante la diversità dei contesti e dei governi, tanto il terremoto dell’Aquila quanto quello dell’Emilia-Romagna testimoniano il fallimento della politica verso la salvaguardia di paesaggi feriti.
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restauro , territorio fragile
Last modified: 3 Febbraio 2016
[…] Emilia, a che punto è la ricostruzione? (inchiesta a cura di Matteo Agnoletto, Luigi Bartolomei e Paola Bianco) […]
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