Prosegue, con un’intervista a Luigi Mazza (professore emerito di Urbanistica al Politecnico di Milano), la pubblicazione degli abstract del libro Expo dopo Expo. Progettare Milano oltre il 2015 (a cura del Master Architettura Paesaggio, che ha lanciato una campagna di crowdfunding con l’obiettivo di stampare copie cartacee, mentre è disponibile l’ebook)
Lo sviluppo urbano degli ultimi vent’anni a Milano è stato condizionato in modo determinante dal mercato immobiliare. L’amministrazione pare aver registrato quanto si proponeva sulle aree dismesse, mentre nulla di consistente è stato proposto sotto il profilo ambientale. Pensa che questa modalità con cui si è espressa l’economia sul territorio possa considerarsi concluso?
No, non penso affatto che si sia concluso. Credo che il meccanismo di sviluppo della città, attraverso il sistema immobiliare, non si concluderà mai. Si troverà sempre un modo per poter andare avanti. Non fermando la macchina non si fermano gli strumenti.
Però il mercato è fermo da alcuni anni…
È vero, esiste una crisi. Ma non è fermo solo il mercato immobiliare, è ferma l’intera economia. Sono sicuro che gli operatori dell’immobiliare siano convinti che il meccanismo prima o poi riprenderà a funzionare. Anzi, meno è continuativa l’attività più si intensifica, perché bisogna realizzare il massimo profitto in quelle poche occasioni che si presentano.
Come può lo Stato intervenire in momenti di crisi come questa?
In simili momenti si spera che aprendo un po’ i rubinetti la macchina si rimetta in moto. Questo diventa un alibi per ricorrere a strumenti che vorremmo fossero scomparsi. In parte questo sta già avvenendo.
Pensa che la proposta del progetto presentato in agosto dal Governo sull’area di Expo sia uno di quegli strumenti?
Non proprio. C’era bisogno di risolvere il problema per chi si era impegnato in quella operazione. Ho l’impressione che lo Stato stia intervenendo per evitare che questa impresa vada a picco; per evitare, cioè, che quello che si è fatto positivamente in Expo sia macchiato da un’immagine negativa di un dopo Expo disastroso.
Quella di Expo e del Piano di governo del territorio sembrano due storie parallele che però non si toccano mai.
È vero, ma d’altra parte non era previsto che si toccassero. Chi si è occupato di Expo ha cercato di non interagire con il PGT proprio per evitare che si presentassero problemi nel proprio percorso. D’altra parte il PGT rispetto alle premesse è diventato uno strumento poco rilevante.
Oggi in Italia assistiamo sempre di più a una crisi della politica che genera uno scollamento tra il tessuto sociale e le istituzioni; i cittadini vedono imposte dall’alto decisioni senza una partecipazione attiva. A suo avviso, il dibattito sulla nuova destinazione dell’area Expo può costituire l’occasione per stipulare un nuovo patto sociale e territoriale per lo sviluppo e la ricostruzione di un tessuto sociale condiviso?
Si tratta certamente di un’opportunità particolare, ma oggi sembra persino impossibile organizzare un serio dibattito sul futuro dell’amministrazione comunale; non vedo le premesse politiche per un nuovo patto e mi chiedo chi potrebbe assumere l’iniziativa. Basteranno interventi come il vostro? Siamo sempre da capo, anche se il dopo Expo potrebbe essere una vera occasione, la crisi della politica a livello locale neutralizza il dibattito. Il guaio è che oggi è possibile pensare e proporre ragionevolmente le cose più diverse, non esistono veri limiti alle iniziative possibili, non esistono vocazioni territoriali in quanto, in un territorio come il nostro, le vocazioni possono essere inventate e predisposte se esiste una volontà politica sufficiente per coinvolgere risorse adeguate.
La Città Metropolitana si istituisce a distanza di venticinque anni dalla sua elaborazione legislativa, in condizioni ormai superate dai fatti. D’altra parte sembra prevalere il lato di gestione dei servizi su quello pianificatorio. Che cosa pensa a riguardo?
Ne ho parlato estesamente nel capitolo Dimensione urbana e strumenti di governo del territorio all’interno del libro di Andrea Arcidiacono e Laura Pogliani dal titolo Milano al futuro, riforma o crisi del governo urbano (Milano 2011). Credo che ci sia una serie di attese attorno a dei termini, come “Città Metropolitana”, che sono ingiustificate. In sostanza esiste ormai una realtà che si è sviluppata in modo autonomo ed è sostanzialmente indipendente dalle decisioni amministrative. Nei confronti di tale realtà dobbiamo sviluppare politiche specifiche (per esempio le politiche sulla casa), delineandone gli strumenti, le risorse ecc., e applicandole in luoghi determinati al di là dei confini amministrativi esistenti. Solo dopo aver individuato l’area necessaria di pertinenza di una determinata politica, cioè il territorio che devo investire, mi pongo il problema su come procedere, altrimenti non raggiungo i miei obiettivi.
Lo Stato si basa su un sistema territoriale amministrativamente definito, di tipo piramidale (governo, regioni, comuni), attraverso cui attua le politiche territoriali. Quale può essere il soggetto che riesce a portare avanti tale operazione e come può interagire con i diversi livelli amministrativi?
Penso ad un’agenzia autonoma, incaricata da parte di una di queste istituzioni, con il compito di confrontarsi con le comunità locali per verificare condizioni alle quali è possibile realizzare la politica definita in precedenza. Si spera che le politiche siano così buone da risultare convincenti per i comuni che devono applicarle.
Quindi introdurremmo un sistema che sopperisce, per certi versi, al processo partecipativo che trova difficoltà a decollare in Italia?
La Toscana si è dotata di una legge molto avanzata sui processi partecipativi su cui si riponevano molte aspettative ma, in realtà, dopo anni i risultati appaiono in fondo deludenti. Un resoconto di Massimo Morisi (Giochi di potere. Partecipazione, piani e politiche territoriali, Utet), garante per la partecipazione, ci fa comprendere che nonostante diverse sollecitazioni nei confronti della popolazione, l’amministrazione deve sempre farsi carico delle decisioni. I processi partecipativi non permettono di raggiungere un esito condiviso convincente e non riescono a concludere, a portare a termine una scelta su una determinata questione. Nemmeno attraverso referendum popolari. Ma non sono sorpreso dal risultato, ritengo che la democrazia rappresentativa sia nata proprio per risolvere i problemi decisionali, altrimenti sarebbe inutile. Lo studio mostra che i tipi di processi decisionali presi al di fuori delle forme della democrazia rappresentativa non funzionano.
Articoli precedenti:
(di Antonio Angelillo)
Le aree dismesse faranno la Milano del futuro (di Sebastiano Brandolini)
João Nunes: per il post Expo pensiamo a funzioni temporanee (di Antonio Angelillo)
Vittorio Gregotti: l’area Expo come cuore multifunzionale di Milano Città metropolitana (di Antonio Angelillo)
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Come valutare gli impatti di Expo (di Francesco Memo)
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expo 2015 , Milano
Last modified: 3 Febbraio 2016