Intervista al geografo Franco Farinelli: i concetti di paesaggio, città, modernità (e post), globalizzazione, cartografia
PIACENZA. «Il paesaggio? Il contrario dello spazio. Il paesaggio urbano? Una contraddizione in termini. La città contemporanea? Qualcosa di indefinibile. La cartografia? Una “falsa” amica per gli architetti». Franco Farinelli, geografo atipico, rientra in quella piccola schiera di “fortunati” intellettuali esterni presi a riferimento dalla cultura architettonica. Da Bauman a Augé, l’interdisciplinarità sembra il vero orizzonte contemporaneo. «Effettivamente mi trovo spesso a parlare con gli architetti». A metà settembre è capitato a Piacenza, nel campus del Politecnico di Milano, davanti a 130 studenti impegnati nella sesta edizione dell’International Summer School di progettazione architettonica e urbana OPEN CITY.
Lo abbiamo intervistato.
Che cosa suggerisce il titolo del workshop, “Feeding (the) Landscape”?
Che non possiamo non parlare di paesaggio, oggi. È la crisi che ci costringe a inventare nuove forme per interpretare la realtà. E il paesaggio, almeno fino ad adesso, è l’unica possibile. È la forma del luogo e ha preso il posto di altri concetti, come quello di spazio, mettendo al primo posto la percezione. La Convenzione europea del paesaggio, che è documento di grande importanza, ci dice proprio questo.
Paesaggio o paesaggi? Perché spesso a questa parola sono associati numerosi aggettivi: rurale, paesaggio urbano…
Gli architetti hanno cominciato a parlare di paesaggio urbano nella seconda metà del Novecento. La trovo una contraddizione, un paradosso. Ma questa definizione non rappresenta un cambio di condizione, è soltanto la migrazione da un modello all’altro. Oggi la maggior parte della popolazione mondiale vive in agglomerati urbani, dunque possiamo dire che una definizione della città non è possibile.
Tutto il mondo è una grande città?
Anche questa è un’idea vecchia. Possiamo chiudere il cerchio dicendo che la città diventa paesaggio. Così è possibile parlare della bellezza della città, che è un’idea moderna.
In che senso?
Nel senso che la città nasce, nella cultura occidentale, come un modo per stare insieme, per organizzare le proprie relazioni, insomma per raggiungere la felicità. Poi succede qualcosa, nasce la modernità.
Che è cosa diversa dalla modernità in architettura.
C’è un luogo e un momento, la Firenze della metà del 15° secolo. Sotto il portico dello Spedale degli Innocenti ha origine la modernità, e con essa la nostra idea di spazio, secondo un’inedita – perché contrastata – relazione tra ciò che si vede e ciò che si tocca, dove il soggetto è fisso e fermo. Poi 45 anni fa succede qualcosa, era l’estate del 1969.
Lo sbarco sulla luna?
No, mentre tutti guardano all’insù, verso la Luna appunto, succede che tra Los Angeles e Washington due computer iniziano a scambiarsi informazioni a distanza. E’ la nascita della rete, i primi germi della globalizzazione. Da qui spazio e tempo non hanno più lo stesso significato, perdono completamente valore. La mobilità del soggetto rappresenta la fine della modernità. Abbiamo creduto per tanto tempo che gli uomini fossero fermi, che non potevano muoversi. Oggi siamo entrati in una dimensione diversa.
E questo sfocia in fenomeni globali e attualissimi, come quello delle migrazioni, che condizionano il concetto stesso di globalizzazione.
Il punto è proprio questo: perché lo stato moderno possa nascere, si suppone che il soggetto sia fermo e immobile. Tutta la modernità si è costruita attorno a questa idea. Uno stato, quello moderno, che si caratterizza – o si dovrebbe caratterizzare – perché omogeneo, continuo e isotropo: una sorta di costruzione euclidea. La globalizzazione mette in crisi tutti questi concetti, ristrutturando non solo l’idea di stato ma anche quella di natura.
Una rivoluzione che investe anche il modo di guardare la terra, ovvero il primo atto progettuale di ogni architetto.
La modernità ha trasformato la terra in un unico spazio enorme, in un’unica gigantesca mappa che entra in crisi con la fine della modernità. Si tratta ovviamente di una riduzione che taglia elementi fondamentali. Per gli architetti prima di tutto.
Questo come influenza la città di oggi?
La città non può più essere ridotta a una mappa, a un dispositivo topografico composto da strade, edifici e muri, ma dove scompaiono le persone.
Oggi questo passaggio raggiunge le estreme conseguenze con l’ulteriore e apparentemente infinito progresso tecnologico. Con un semplice click su un computer hai la sensazione di un controllo totale.
La virtualità è iniziata con la modernità, come dicevo prima. I progressi tecnologici l’hanno sviluppata creando nuove forme di mappe che descrivono la terra. Ma attenzione: quando sei su Google Earth ti sembra di essere nel paesaggio ma non lo sei, è tutta un’altra dimensione. Perché in realtà sei in un non-spazio, in una no man’s land.
Alcuni di questi strumenti sono nel bagaglio quotidiano di tutti gli architetti del nostro tempo.
Mi spaventa molto l’ingenuo attaccarsi alla cartografia come se da quella potesse derivare la capacità di trasformare il mondo. Tanto il mestiere quanto il pensiero dell’architetto sono troppo condizionati dall’immagine cartografica. E’ una fiducia mal riposta, perché rischia di nascondere quello che c’è dietro la cartografia, ovvero la vita. E alla vita credo che gli architetti debbano guardare.
Soprattutto i giovani studenti.
A loro dico che la prima cosa, fondamentale, è di tornare a leggere gli autori classici. Aggiungo poi di cercare nei progetti una genealogia di visioni. Serve innovarsi per trovare un sistema di relazioni tra la mappa (che è l’espressione della geografia) e la mente.