Il Decumano, l’asse lungo millecinquecento metri che costituisce la spina dorsale del disegno urbano, è il vero punto di forza dell’Esposizione milanese. Lascito dei primi studi sull’area, ha resistito a tutti i mutamenti di disegno – da improbabile luogo di orti e serre a più tradizionale insieme di padiglioni- per diventare il luogo subito scelto dal pubblico dove tutti si incontrano e tutto si vede, e dove la gente sciama sempre in grande quantità incurante delle personalità che a turno si avvicendano. Le Esposizioni universali sono passerella naturale per presidenti, mogli di presidenti, diplomatici, autorità in una sorta di assemblea permanente delle Nazioni che facilita relazioni e scambi in un ambiente informale. Solo questo, tra l’altro, sarebbe un effetto collaterale da tenere in grande considerazione nelle valutazioni su questo tipo di eventi. Mentre in un asse di una qualsiasi città di tipica tradizione urbanistica europea e italiana l’arrivo dei cortei presidenziali basterebbe a bloccare il fluire della vita, qui la dimensione, ma forse ancor più la sete delle persone di appropriarsi visivamente del paesaggio del tutto inedito e di non badare ad altro, sopraffà i protocolli e li riduce a insiemi di macchinette elettriche che perturbano appena il grande fiume del Decumano. È il pubblico il protagonista: il pubblico che, incurante di polemiche e campagne stampa autolesioniste, è arrivato fin dal primo giorno ad affollare questo spazio di un milione di metri quadrati. Uno spazio che, fino al primo maggio, semplicemente non esisteva, in quanto non conosciuto o negato, e forse proprio per questo oggetto della fortissima curiosità di tutti. Basterebbe questo a giustificare e a far comprendere le ragioni di chi ha voluto, strenuamente e giustamente, intraprendere e portare a termine questo immane impegno.
La gente solca, dunque, il grande asse e ammira padiglioni e clusters che su questo si affacciano, per la prima volta con pari dignità e medesima ampiezza di fronte. Questa è sicuramente una grande e significativa innovazione. Il problema del “peso” dei paesi ha sempre condizionato pesantemente le scelte urbanistiche delle Esposizioni. In tempi recenti si è andati dalla soluzione portoghese – nessun padiglione, solo quello nazionale, e tutti i paesi “ridotti” a stand in grandi spazi fieristici comuni (soluzione comunque brillante in quanto inserita in un piano di disegno di un nuovo brano di città pienamente riuscito) -, al “ritorno al passato” di Shanghai ove, in uno spazio immenso e fuori dalla portata umana, i paesi erano disseminati all’interno di una rigida griglia urbana che, ancora oggi, non è riuscita a partorire un nuovo assetto per quella parte di città. Qui a Milano il “lotto gotico” regola i cosiddetti “self-built pavillions” e i “clusters”, nuova tipologia che riunisce i paesi “minori” in spazi a tema progettati con un’innovativa procedura che ha coinvolto studenti e docenti di università sparse per il globo, risolvono brillantemente il problema delle presenze ponderate e donano nuovi stimoli al tema compositivo del padiglione. Peccato non aver potuto/saputo coronare questo sforzo compiuto sull’impianto urbanistico con un progetto, anche minimo e da “regolamento edilizio”, che donasse un poco più di armonia e omogeneità al costruito.
L’effetto che accoglie il pubblico è comunque notevole. Come nella composizione di Modest Petrovič Musorgskij, i padiglioni, quadri di un’Esposizione, si affacciano sul Decumano e si disvelano potendo essere tutti colti in uno sguardo e, quindi, potendo essere facilmente comparati e classificati. Lasciamo i clusters ad altra disamina da effettuare più puntualmente per la particolarità del tema, e concentriamoci sui “self builts”. Nella suite per pianoforte dedicata a Viktor Hartmann, pittore ma anche architetto, i brani si susseguono con caratteri diversi scontrandosi e contrapponendosi in un effetto finale che è di grande bellezza e fascino: qui a Milano i padiglioni sembrano più volersi schierare in “scuole di pensiero” che più semplicemente danno al visitatore la possibilità di valutare e riflettere.
Partendo da porta ovest ci accolgono le scenografie urbane di Michele De Lucchi, a ragione definito asso pigliatutto di questo 2015 meneghino. Sono monti e valli che definiscono caverne interne che, nel Padiglione zero, permettono per la prima volta nella storia delle Esposizioni universali di avere uno spazio che racconti il tema della manifestazione. Nell’Expo centre sono, meno efficacemente, antri sezionati che, però, hanno il pregio di non essere magniloquenti e di costituire un principio/fine all’asse del Decumano. Sul fronte opposto, a Est, il Decumano si smarrisce, invece, nel piccolo borgo, disegnato da Herzog & de Meuron per Slow Food, che vede protagonista un sistema a portali un po’ troppo “low profile”.
Il Decumano abbiamo detto essere impianto urbano riuscitissimo anche a dispetto delle distanze non piccole, ma che mettono subito lo spettatore nella disposizione di dover dedicare il giusto tempo a una visita che deve avere ritmi umani e, quindi, richiedere anche un tempo e uno sforzo fisico misurabile con buona pace di monsieur Eugène Hénard, che nell’Expo parigina del 1889 diede vita al tapis roulant. L’effetto collaterale è quello ricordato: sul Decumano ci s’incontra, saluta, si parla, ci si relaziona, esattamente come lungo il corso di una città italiana o europea e anche le apparizioni di bande, cori, giocolieri e affini contribuiscono a un clima sereno e gioioso.
Subito appare il Brasile, “non padiglione” che spiazza il pubblico (e la critica) proponendo un gioco che comunica e coinvolge con semplicità e freschezza. Una grande navata in corten completamente vuota permette di tesare una rete sulla quale tutti, grandi e piccini, si misurano in una sorta di gara a chi resiste meglio per raggiungere la cima. In verità poi il padiglione c’è, con tanto di mostre elegantemente disegnate, ma tutta la sorpresa e la gioia si sono esaurite all’aperto.
Fra i non padiglioni assolutamente degno di nota l’Olanda, gioioso accampamento un po’ gipsy che una simpatica manina ha messo di fianco alla Santa Sede riuscendo a non far troppo notare il rigido contenitore di quest’ultima. Prima soluzione, dunque, all’annoso problema compositivo è disegnare qualcosa che non sia in nessun modo un padiglione inteso come volume architettonico. Il tema si rivela pericoloso, vedi la Bielorussa che presenta una collinetta verde spaccata a metà da una sorta di ruota di un mulino ad acqua multimediale. Sulla scia, ma con altri risultati, anche la Gran Bretagna che, memore dei successi cinesi, pone una scultura filigranata, disegnata da un artista, basata sulla struttura di un alveare posta al fondo di un percorso ovviamente verde.
Anche altri scelgono di arretrare perdendo l’occasione del confronto, come la Francia che si pone dietro a un giardinetto per presentare una tozza struttura lignea che riecheggia una cave. Il legno è sicuramente il materiale più usato. Nel Cile la perizia tecnologica lo esalta come sistema strutturale colto anche se il risultato non è poi così affascinante. Nel padiglione della Polonia diventa poetica del ready made, cioè accumulazione ordinata di cassette della frutta. In quello del Giappone il legno serve a realizzare un raffinatissimo sistema a incastro che disegna un muro di grande interesse. La Spagna lo usa per disegnare due strutture a capanna affiancate, delle quali una diventa navata aperta.
Il razionalismo, un po’ internazionale, non è mai sopito, ne sono esempio Lituania e Repubblica Ceca. Quest’ultima si tradisce subito però in una surreale piscina – di grandissimo successo in questo inizio di estate – abitata da un incrocio fra macchina-uccello-ala a testimoniare che l’Expo è sempre un po’ come Carnevale, ogni scherzo vale.
Altro tema quasi obbligato la natura che diventa verticale o in forma di campo – bellissima la sequenza in Israele – o di facciata urbana, vedi i pannelli esterni negli Stati Uniti o, più semplicemente, come passeggiata in collina nell’Iran. Ma la natura può essere anche un bosco e l’Austria lo introverte creando un luogo di frescura e relax. La Romania, invece, il bosco lo taglia e la casetta in tronchi, posta al primo piano, lascia francamente attoniti. Non tronchi, ma tubi di acciaio con tessuti tesati per Messico e Germania, quest’ultima si riscatta con un grande lavoro sui contenuti interni.
Russia ed Estonia fisicamente vicine condividono anche un curioso tema compositivo: la visiera. Forse inconscio riferimento a una storia comune non sempre facile, nel paese baltico la mensola inclinata si stacca dal volume a coprire un gioco di terrazze sottostanti; mentre più lunga e monumentale costituisce una grande pensilina specchiata per entrare a scoprire i temi della Federazione Russa.
Massiccia la presenza dei paesi arabi che sembrano esplorare tutte le possibilità. Star architect internazionale per gli Emirati Arabi Uniti che esibiscono, progetto di Foster+Partners, un canyon fra le dune del deserto di sicuro fascino ed effetto. Star nostrana per il Kuwait: qui Italo Rota disegna delle vele sulla sabbia che non fanno sognare. Vernacolare e fumettistico l’approccio di Qatar e Oman mentre il Barhain si affida a un disegno minuto, raffinato e colto dello Studio Anne Holtrop che non partecipa in nessun modo alla sfilata di gesti lungo il Decumano e si candida a essere una delle migliori riflessioni sul tema che questa Expo ci offre.
Anche la Cina, che ormai non si fa mancare niente, giganteggia con i suoi tre padiglioni e abbraccia tutti i temi: vernacolare didascalico nel padiglione nazionale affidato alla confortante immagine di una copertura lignea in forma di onda; tecnologico-colto nel dragone disegnato da Daniel Libeskind che brilla grazie a “squame” di italico ingegno e produzione; tecnologico-banale nel padiglione corporate che ti lascia con un poco di angoscia dopo aver assistito alla performance multimediale di un improbabile panda rosso.
Tuttavia, i contenuti sembrano essere “il problema” di questa Expo. Poche sono le nazioni che riescono a coniugare la comunicazione per tutti con messaggi significativi sull’impegnativo tema proposto. Le visioni “nazionaliste”, in senso positivo, hanno spesso il sopravvento, e la tecnologia talvolta prevale come nei pur pregevoli padiglioni della Corea e del Giappone.
Anche in questo caso il modello cluster sembra funzionare meglio, se non altro nell’indicare temi da approfondire e nel fornire dati sui quali riflettere. Lo slittamento della riflessione dalla nutrizione al cibo è in agguato per tutti, ma bisogna ammettere che è anche uno dei segreti del successo popolare di questa Expo.
La fuga in avanti dell’Italia non sembra portare molto lontano: padiglione affetto da elefantiasi pur con soluzioni tecnologiche e costruttive di prim’ordine; Cardo popolato da regioni, sub regioni e istituzioni che non trovano mai misura fra l’anonimo e il vernacolare (vedi Trentino Alto Adige); lago, lake arena, che sembra l’apoteosi della poetica della rotonda – per inciso la rotonda è sempre un’invenzione del nostro Hénard, eroe del 1889 parigino sopra ricordato – che oramai infesta le nostre strade e che pone sull’altare sacrificale centrale un Albero della vita che è meglio valutare come straordinario tributo all’operosità di chi lo ha realizzato a tempo di record piuttosto che come macchina scenica quale vuole essere.
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Last modified: 23 Novembre 2021