Gli adeguamenti degli spazi museali per gli allestimenti temporanei delle mostre rappresentano spesso un problema. Il caso del Civico museo di Santa Caterina a Treviso
TREVISO. Tra i diversi aspetti affrontati nella sua puntuale riflessione, Gabriele Toneguzzi non tralascia di citare uno dei fenomeni contemporanei più diffusi: quello che è oramai passato alle cronache come «mostrismo imperante». Se da una parte l’offerta compulsiva di proposte temporanee (spesso d’importazione) viene percepita dalle amministrazioni cittadine come unico escamotage per rinverdire l’indotto economico di coloro che aderiscono alle Confesercenti, dall’altra la collocazione di mostre blockbuster all’interno di spazi museali predefiniti non sempre comporta felici integrazioni né, paradossalmente, corrisponde a positive ricadute per le casse comunali.
A tal proposito indicativi exempla ci sembrano i casi del MAO di Torino (il Museo d’Arte Orientale il cui piano terra è stato recentemente svuotato per dare spazio alla mostra «La via della Seta nelle fotografie di Michael Yamashita», con vibrate proteste del suo progettista, l’architetto Andrea Bruno) e quello del Civico museo trevigiano di Santa Caterina.
In quest’ultima circostanza, una delibera della giunta comunale datata 19 dicembre 2014 ha sancito il via libera ai lavori di adeguamento funzionale e impiantistico per adattare le sole tre sale più ampie alle esigenze di un’ipotetica mostra autunnale che avrebbe dovuto portare la firma di Marco Goldin e un titolo, per usare un eufemismo, approssimativo: «Treviso e il Mondo».
Il riassunto di quanto accaduto nel capoluogo della Marca da allora sino a oggi rispecchia, tra conferme, smentite e surreali colpi di scena, cliché degni delle più celebri novelas sudamericane, così come qualcuno ha sarcasticamente fatto notare. A noi basti sapere che alla fine, dopo la definitiva rinuncia di Goldin, il sindaco Giovanni Manildo ha comunque dato il via ai lavori con un progetto (di cui ancora nulla si sa in merito al disegno esecutivo) di Edoardo Gherardi, allestitore fedelissimo delle mostre goldiniane, per un costo previsionale di 1,2 milioni. Risultato: perdita delle attuali aule didattica e conferenze trasformate in bookshop e guardaroba; parziale disallestimento del museo. Il tutto in assenza di una programmazione culturale a medio e lungo termine che giustifichi l’intera operazione.
Senza un progetto museologico quantomeno parziale, cornice necessaria di ogni intervento museografico, i molti rilevanti artefatti che il museo già ospita, da tempo in attesa di essere valorizzati per mancanza di fondi, rimarranno relegati nei depositi ed esposti in seguito senza i conforti della climatizzazione riservata ai prestiti, privilegiando la loro veste iconica.
Che cosa potrebbe servire al museo? Una visione, anche minima, non può prescindere da una seria (e parallela, se non prioritaria) analisi economica. L’obiettivo, per ogni avveduto amministratore, dovrebbe essere quello di pareggiare i conti o, almeno, conoscere l’entità delle perdite attese. Sarebbe inoltre utile un progetto di massima lungimirante diviso per stralci futuri, pur in assenza di denari. Ciò permetterebbe unaccorta e sistematica politica di fundraising, crowdfunding, fundhunting. Il piano dovrebbe essere ricompreso in una visione complessiva delle istituzioni culturali almeno locali, se non comprensoriali, entro un ciclo di mostre pluriennali. Paradossale davvero che le amministrazioni locali, nella loro miopia, continuino a non avvedersi di priorità così ovvie e al contempo così necessarie per la corretta gestione delle nostre istituzioni museali.
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allestimenti , mostre , musei
Last modified: 12 Marzo 2016