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Sergio PaceWritten by: Professione e Formazione

Frei Otto e il Pritzker: un destino cinico e una scelta (apparentemente) bislacca

Frei Otto e il Pritzker: un destino cinico e una scelta (apparentemente) bislacca

Riflessioni sul conferimento del premio, pochi giorni prima della scomparsa dell’architetto novantenne

 

Una premessa necessaria: la scaramanzia è senz’’altro un’’attitudine poco elegante. Ciononostante, quando l’’anno venturo la commissione del Pritzker Prize busserà alla porta del fortunato vincitore, nessuno si stupirà qualora quest’’ultimo dia luogo a riti apotropaici di gusto discutibile. Per capire i motivi per cui un archistar, d’indiscusso prestigio e cultura (come conviene a ogni archistar), potrebbe lasciarsi andare a tal punto, occorrerà ricordare quel che è accaduto nelle settimane appena trascorse.

All’’inizio del 2015, infatti, la giuria del glorioso premio ha deciso di laureare Frei Paul Otto, nato a Chemnitz il 31 maggio 1925 e divenuto architetto a Berlino nel 1948. Qualche settimana più tardi, secondo un comunicato stampa,– il direttore esecutivo del premio ha raggiunto personalmente l’’anziano architetto nella sua casa-studio di Warmbronn, nei pressi di Stoccarda, per annunciare di persona il lieto evento. Durante il festoso incontro, Otto ha dichiarato di voler usare il premio per continuare a far quel che ha sempre fatto, cioè dare aiuto all’’umanità, per il resto della propria vita.

Parole d’’incauto ottimismo: Otto è morto il 9 marzo scorso, prim’ancora della cerimonia di premiazione, programmata a Miami Beach per il prossimo 15 maggio. Un fato avverso ha impedito che l’’umanità gioisca ancora delle virtù del famoso architetto, ma ha impedito altresì che il famoso architetto gioisca dei cospicui denari messi a disposizione del premio. Il presidente della giuria, Lord Peter Palumbo, affranto ha commentato che «time waits for no man». Gli eredi, in ogni caso, ringraziano.

Come si sia potuto giungere a questa grottesca sequenza di eventi è, probabilmente, materiale da romanzo (gotico, per alcuni versi). Innanzitutto, è facile osservare come l’’età dei vincitori pareva in discesa, negli ultimi anni: Philip Johnson aveva 73 anni quando ricevette il premio nel 1979, Luis Barragán ne aveva 78 nel 1980, Kenzo Tange 74 nel 1987, Oscar Niemeyer 81 nel 1988; però poi Aldo Rossi ne aveva 59 nel 1990, Christian de Portzamparc 50 nel 1994, Herzog & de Meuron ne avevano 51 nel 2001, Wang Shu 49 nel 2012. Otto, a novant’anni quasi compiuti, ha alterato ogni statistica, ricevendo un premio letteralmente in limine mortis.
Se si può escludere con serenità che il premio sia stato indirizzato a un architetto che ancora avrebbe potuto dare molto all’’umanità (nonostante i fermi propositi), occorre domandarsi le ragioni di questa corsa contro il tempo, vinta peraltro solo in parte dall’’affannata giuria. Otto è stato forse ingiustamente trascurato in passato? La sua opera, per qualche oscura cospirazione, è rimasta sepolta sotto una coltre pesante di ostruzionismo, da parte di entità maligne che ne hanno impedito finora il dovuto riconoscimento? Anche in questo caso, purtroppo, risposte certe paiono azzardate.

Una cosa è certa, tanto da essere ricordata un po’’ ovunque: Otto ha disegnato il padiglione tedesco all’’Esposizione universale di Montréal e le coperture dello stadio di Monaco di Baviera (con Behnisch & Partner). La prima opera è inaugurata nel 1967, la seconda nel 1972. Pur con sforzi considerevoli, altre opere dell’’illustre architetto, memorabili o almeno meritevoli di passeggera fama, sono difficili da rintracciare. Persino le motivazioni del premio riescono a ricordare ancora soltanto il padiglione giapponese all’’Esposizione di Hannover 2000 (con Shigeru Ban), assai vaghi lavori in Medio Oriente e nulla più. Le altre parole della giuria -– vale la pena ricordarlo, presieduta da Palumbo e composta da Alejandro Aravena, Stephen Breyer, Yung Ho Chang, Kristin Feireiss, Glenn Murcutt, Richard Rogers, Benedetta Tagliabue, Ratan N. Tata e Martha Thorne -– non aiutano molto. Non si può dire che sia stato premiato qualcuno che, almeno finché un destino cinico (ma tutt’’altro che imprevedibile) non ha voluto portarselo via, stesse contribuendo in maniera rilevante alla cultura architettonica contemporanea.

Così, quest’’anno il Pritzker non è andato né a un esordiente di belle speranze né a un maestro conclamato e prolifico. Come avrebbe domandato Leon Battista Alberti, quid tum? Molte ipotesi possono essere legittime, ma un dubbio fa capolino di soppiatto. E se la giuria, con questa scelta all’’apparenza bislacca, avesse voluto proprio affermare che, da un lato, non si vedono all’’orizzonte esordienti di belle speranze e, dall’’altro, sono scomparsi o stanno scomparendo (appunto) i maestri conclamati e prolifici? E se avesse voluto comunicare al mondo un proprio apocalittico pessimismo sui destini dell’’architettura, dichiarandosi condannata a pescare in un vivaio di maestri, grandi piccoli o minuscoli, ormai quasi prosciugato non foss’e altro per cause naturali, senza aver nemmeno la speranza di scoprire nuovi talenti? Un presagio fosco si profila sul futuro dell’architettura…

Mai ascolteranno parole da un pulpito così umile; e, tuttavia, se la giuria fosse davvero in queste ambasce, si potrebbe darle volentieri un suggerimento per i premi a venire. Perché non assegnarne uno a Le Corbusier? E vogliamo trascurare Viollet-le-Duc? Quando sarà il turno dei tedeschi, non ci sarà che l’’imbarazzo della scelta tra Schinkel e Mies. E Guarino Guarini non valeva’ Zaha Hadid? Speriamo, dunque, di essere ancora vivi per assistere almeno alla cerimonia di premiazione di Vitruvio, che opportunamente si terrà in una riedizione della Basilica di Fano, all’’uopo ricostruita da qualche parte in Texas.

Frei Otto, coperture dello stadio olimpico di Monaco di Baviera (1972, con Behnisch & Partner)

Frei Otto, coperture dello stadio olimpico di Monaco di Baviera (1972, con Behnisch & Partner)

Frei Otto, padiglione tedesco all’Esposizione universale di Montréal (1967)

Frei Otto, padiglione tedesco all’Esposizione universale di Montréal (1967)

Autore

  • Sergio Pace

    Professore ordinario di Storia dell'architettura presso il Politecnico di Torino, dove è anche referente del Rettore per Biblioteche e archivi storici. Ha lavorato e pubblicato principalmente sull'architettura europea e la città del XIX secolo, così come sull'architettura industriale e la ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale, con particolare attenzione all’opera di Carlo Mollino. Negli ultimi anni si è dedicato alle culture architettoniche dell’eclettismo europeo e alla città di Nizza, tra la tarda età moderna e la prima età contemporanea

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Last modified: 5 Dicembre 2023