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Written by: Forum

L’architettura come marchio globale è in via di estinzione?

L’architettura come marchio globale è in via di estinzione?

Un edificio parigino – la Fondazione Louis Vuitton – e un progetto rifiutato – la Tour triangle – hanno recentemente occupato i media, seguiti dal lionese Museo delle confluences e, sempre a Parigi, dalla Filarmonica.
Le icone e gli archistar sono emersi nel mondo dell’architettura: le prime negli anni ottanta, i secondi negli ultimi 15/20 anni. La storia delle icone comincia con il Centro Pompidou e la politica della città di Francoforte con i programmi dei musei che sono stati vettori d’identità d’immagine, di attrattività e di frequentazione turistica. Così, da lì in poi ciascuna delle grandi città cercherà di promuovere i suoi nuovi marchi.
La globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia, l’importanza assunta dal turismo e dall’industria del lusso, la trasformazione culturale profonda dei nostri comportamenti determinata dall’alleanza tra mercato dell’arte (coi suoi musei al seguito) e industria del lusso hanno prodotto questa mutazione dell’architettura identificata nell’oggetto di design. Oggi, la crisi economica, che ha fatto emergere i processi partecipativi, conduce a rimettere in discussione questi oggetti.
Negli anni ottanta, Hans Hollein e Oswald Mathias Ungers producono delle opere riconoscibili, ma mai quanto Richard Meier, emblematico di tale passaggio alla produzione estesa di oggetti ripetitivi su criteri di visibilità e centrati sull’apparizione e lo sviluppo di tendenze. Situati su un crinale, i progetti di Meier diventeranno “noiosi”, non possedendo la “distrattività” caratteristica dell’esperienza contemporanea. Abbandonare il linguaggio disciplinare è una condizione obbligatoria per accedere alla classe superiore.
Certi architetti avranno tuttavia più difficoltà d’altri a rinascere nella forma di archistar. Tadao Ando per esempio non giungerà a conservare la sua identità creativa cambiando la scala del progetto, e d’allora egli non sarà più di un errore di casting da parte di miliardari mal consigliati.
Questa oscillazione della procedura di progetto, da una logica di concezione interna propria dell’architetto verso una logica iconica esterna, è un movimento infernale che trasformerà l’architettura. Il logo uccide il racconto. Affascinati dalla produzione immediata dell’oggetto, gli architetti perdono il ricordo delle narrazioni che furono loro. Concepiti sul modello dell’oggetto di design, a contemplarsi dall’esterno anche quando si è dentro, tali edifici sono incapaci di farci percorrere un eventuale racconto. Questi oggetti di design ingranditi senza più precisione né intenzioni non potranno trovare la loro efficacia se non da molto lontano, ristabilendo così un rapporto distanza/dimensione simile. Tale trasposizione ha molto spesso condotto a una distruzione della dinamica creativa degli architetti, e si può determinare il momento di questa trasformazione.

1994 Coop Himmelb(l)au. Le proposte di questo gruppo radicale scompaiono una prima volta nel 1988 nell’esposizione di oggetti di design e scultorei “Deconstructivist Architecture”, e poi nella loro mostra al Centro Pompidou che ne ufficializza lo statuto. Assumendo la dimensione di un edificio, l’architettura scultorea dalle linee tese di alcune folies uscite da grafici nervosi diventerà un oggetto sempre troppo gonfiato dagli steroidi (il programma…), sempre troppo obeso, sempre pronto a debordare per attirare l’attenzione, come ne convengono oggi i suoi promotori lionesi. Il museo di Groningen del 1994 è forse l’ultimo progetto di Coop Himmelb(l)au da visitare. L’architettura è divenuta un oggetto da guardare (da molto distante) e non più da frequentare.

1997 Frank O. Gehry. La sua architettura va similmente declinando verso un vocabolario sempre più limitato e conforme al logo, diventato la ragione stessa della sua sola necessità. La Disney Concert Hall di Los Angeles e il museo Guggenheim di Bilbao sono senza dubbio glli ultimi edifici interessanti realizzati, non essendo gli altri se non riproduzioni sempre semplificate. La Fondazione Vuitton ne è probabilmente l’opera esausta, fino a contraddire uno dei moventi, la relazione tra la pelle e la struttura. Questo dibattito tradizionale è esistito, nel museo Vitra che identifica la pelle e lo spazio interno, a Bilbao, dove la struttura è sfoggiata come “abborracciata”. All’opposto dell’alta gioielleria alla quale Vuitton avrà creduto di disporre attraverso la sua Fondazione, la stessa struttura abborracciata vuol farsi “bella e ornamentale”, ma non vi giunge se non con la messa in evidenza oscena dei “cammelli costruttivi”, pasticcio magistrale che eredita la Municipalità di Parigi. Sempre nella capitale, mentre concepiva l’Opera Disney, Gehry ha realizzato un progetto poco apprezzato dai colleghi, l’American Center, che sarebbe bene considerare oggi, compreso quando lo si compara alla sua nuova realizzazione. L’informatizzazione dello studio che segue quella fase temporale accelererà la riproduzione dei progetti imponendo il proprio linguaggio di curve (poco innovative) che fa il successo del genere così come una logica di produzione. Non si comprende bene quali siano le invenzioni formali permesse dal programma, se confrontate alle sculture matematiche di Poincaré, né ai gusci degli architetti navali del passato. Scolpendo i suoi modelli, a Los Angeles Gehry era più inventivo che non la sua armata di schermi piatti i quali tentavano di far funzionare un programma dall’inutile complessità e incapace di gestire la “sintesi” che richiede qualsiasi progetto. Detto diversamente, l’industrializzazione della produzione (e la sua illusione di governo delle dimensioni) ha dato il cambio alla necessità della riproduzione di architettura.

2003 Herzog & de Meuron. Tra il negozio Prada di Tokyo e il Forum di Barcellona, il premiato duo svizzero si arrende. La facciata “divertente” in vetro “trapuntato” di Prada diventa un triangolo appiattito e mal fabbricato a Barcellona. Nell’esposizione che il Pavillon de l’Arsenal ha consacrato alla Tour triangle, si vede la degenerazione del progetto, la riduzione delle superfici libere e pubbliche che dovevano assicurare un percorso nella trasparenza. La promozione immobiliare che a Parigi è stata incapace di costruire la Tour sans fin e la Tour signal (entrambe di Jean Nouvel), la Tour phare di Morphosis o ancora prima l’edificio alto progettato da Bernard Zehrfuss nel 1960, sembra in grado di costruire soltanto edifici senza ambizione: dalla tour Montparnasse al Forum des Halles. In questo contesto, lo scacco architettonico della Tour triangle è assolutamente programmato dalla natura della committenza, più ancora che non dalla mutazione iconica degli architetti.
La piramide del Louvre di Ieoh Ming Pei procedeva dal logo, ma prendendo spunto dalla creazione di una situazione: la presenza dell’obelisco. Aggiungendo una piramide all’obelisco, Pei prolungava una storia divenuta postmoderna. Quale storia raccontano Herzog & de Meuron, se non che la piramide è diventata una grande segnaletica da cogliersi dal boulevard périphérique?
In quali condizioni il capitalismo produce un’architettura riuscita (il Chrysler e il Seagram Building a New York, la HSBC a Hong Kong, i Lloyds a Londra)? Quando sa di essere molto ricco, ma ciò non basta; un sentimento positivo, una coscienza e una curiosità dell’epoca gli sono indispensabili. A quale condizione un committente pubblico sceglie un grande progetto (il CNIT alla Défense, il Beaubourg…)? Deve egli stesso possedere questo impegno nell’epoca e cogliere finemente i movimenti interni della cultura architettonica.

2015 Jean Nouvel. Se la torre Agbar a Barcellona è un logo, la piscina di Le Havre è un’esperienza di balneazione e il museo del quai Branly a Parigi un’esperienza turistica. La Filarmonica si è anch’essa “gonfiata” in seguito ai modelli iniziali in cui i visitatori si spostavano molto liberamente sui grandi movimenti di forme e coperture. Il logo fa mordere la polvere anche a Nouvel, la cui attitudine più “esperienziale” rispetto agli altri è da sempre conforme alle evoluzioni del marketing contemporaneo.
Lontano da Georges Bataille, o da Raymond Roussel, “l’esperienza commercializzabile” – quella del cinema commerciale, delle agenzie di viaggio, dei premi letterari, delle mostre d’arte contemporanea o dei centri commerciali… – è il prodotto più venduto al mondo.
Allora, per il 2015, dopo i loghi, è il momento dell’esperienza?

* Il testo è un’anticipazione dell’articolo che sarà pubblicato nel numero di marzo di “d’A”

Version française
L’architecture comme marque globale est-elle en voie de disparition?
Un bâtiment parisien – la fondation L.Vuitton – et un projet refusé – la tour Triangle – ont occupé les médias sur la période récente, suivis par le musée des Confluences lyonnais et la Philarmonie.
A la fois le type de projets – les flagships – et les ” star architectes” ont émergé dans le monde de l’architecture, successivement dans les années 1980 pour les premiers, au cours de ces 15 à 20 dernières années pour les seconds. L’histoire des flagships commence par le centre G.Pompidou et la politique de la ville de Francfort avec la construction de programmes de musées qui ont été à la fois vecteur d’identité communicationnelle, d’attractivité et de fréquentation touristique. Les grandes métropoles vont à la suite développer chacune leurs nouvelles marques.
La globalisation et la financiarisation de l’économie, l’importance prise par le tourisme et l’industrie du luxe, la transformation culturelle profonde de nos comportements construite par l’alliance du marché de l’art (et ses musées aux ordres) et de l’industrie du luxe ont produit cette mutation de l’architecture identifiée au design d’objet.
Aujourd’hui, la crise économique, qui a fait émerger à la fois les démarches collaboratives et participatives , conduit à remettre en cause ces objets. La crise économique et l’évolution récente de l’attitude de l’époque déclenchent une interrogation critique sur cette architecture.
Dans les années 1980, Hans Hollein et O.Mathias Ungers produisent des architecture reconnaissables, mais jamais autant que Richard Meier, exemplaire de ce passage à la production étendue d’objets répétitifs sur des critères de visibilité et centrés sur l’apparition et le développement de tendances. Situés à un point de basculement, les projets de R. Meier deviendront “ennuyeux”, ne possédant pas la “distractivité” caractéristique de “l’expérience” contemporaine. Quitter le langage disciplinaire est une condition obligatoire pour accéder à la classe supérieure.
Certains architectes auront ainsi plus de mal que d’autres à renaître sous la forme de star-architectes. Tadao Ando par exemple ne parviendra pas à conserver son identité créative en changeant d’échelle de projet et ne sera plus dès lors qu’une erreur de casting pour des milliardaires mal conseillés.
Ce basculement de la procédure de projet, depuis une logique de conception interne propre à l’architecte vers une logique iconique externe, est un mouvement infernal qui va transformer l’architecture. Le logo tue le récit. Fascinés par la production immédiate de l’objet, les architectes perdent le souvenir des narrations qui furent les leurs. Conçus sur le modèle du design d’objet, à contempler depuis le dehors même quand on est dedans, ces bâtiments sont incapables de nous faire parcourir un éventuel récit. Ces objets de design agrandis sans plus de précision ni d’intentions ne pourraient trouver leur efficacité que de très loin, rétablissant ainsi une rapport distance/dimension similaire . Ce mouvement a conduit le plus souvent à une destruction de la dynamique créative des architectes , et on peut déterminer le moment de cette transformation :
1994 Coop Himmelblau. Les propositions de ces architectes radicaux vont disparaître une première fois en 1988 dans l’exposition d’objets design et sculpturaux – “Deconstructivist Architecture ” – puis dans leur exposition au Centre G.Pompidou qui en officialise le statut. En prenant la dimension d’un édifice, l’architecture sculpturale aux lignes nerveuses et tendues de quelques “folies” issues de graphes énervés deviendra un objet toujours trop gonflé aux stéroïdes (le programme..), toujours trop obèse, toujours prête à déborder pour attirer l’attention, comme en conviennent aujourd’hui ses promoteurs lyonnais. Le musée de Groningen de 1994 est probablement le dernier projet à visiter de Coop Himmelblau. L’architecture est devenue un objet à regarder (de très loin) et non plus à fréquenter.
1997 L’architecture de Frank O. Gehry va pareillement décliner vers un vocabulaire de plus en plus limité et de plus en plus conforme au logo devenu la raison même de sa seule nécessité. L’Opéra de Los Angeles – le Disney Concert Hall – et le musée de Bilbao sont sans doute les derniers bâtiments d’intérêt produits, les autres n’en étant que des reproductions toujours simplifiées. La fondation Louis Vuitton en est probablement la réalisation épuisée, jusqu’à en contredire l’un des ressorts, la relation entre la peau et la structure primaire. Ce débat traditionnel a existé, dans le musée Vitra qui identifie la peau et l’espace intérieur, à Bilbao où la structure est affichée comme “bâclée”. A l’opposé de la haute joaillerie à laquelle Vuitton aura cru accéder, avec la fondation Vuitton, la même “structure bâclée” veut devenir “belle et ornementale”, mais n’aboutit en conséquence qu’à la mise en évidence obscène des “chameaux constructifs”, gâchis magistral dont va hériter la Mairie de Paris. A Paris, alors qu’il concevait l’Opéra Disney, Gehry a réalisé un projet peu apprécié de ses confrères, l’American Center que l’on ferait bien de considérer aujourd’hui, y compris quand on le compare à son voisinage. L’informatisation de l’agence qui suit cette période va accélérer la reproduction des projets en imposant son propre langage de courbes (peu innovantes) qui ont fait le succès du genre ainsi qu’une logique de production. On ne voit pas très bien quelles ont été les inventions formelles permises par le logiciel, comparées aux sculptures mathématiques de Poincaré, ni même aux coques des architectes navals du passé. F.Gehry sculptant ses maquettes à Los Angeles était plus inventif que son armée d’écrans plats tentant de faire fonctionner un logiciel à la complexité inutile et incapable de gérer la “synthèse” que demande tout projet. Autrement dit, l’industrialisation de la production (et son illusion de maîtrise des dimensions) est venue relayer le besoin de la reproduction d’architecture.
2003 Entre la boutique Prada de Tokyo et le forum de Barcelone, Herzog et de Meuron vont rendre les armes. La façade “amusante” en verre “matelassé” de Prada devient un triangle aplati et mal fabriqué à Barcelone. Dans l’exposition que le Pavillon de l’Arsenal a consacré à la “Tour Triangle”, on voit la dégénérescence du projet, la diminution des surfaces libres et publiques qui devaient assurer un parcours dans la transparence. La promotion immobilière qui a été incapable de construire les la Tour sans fin de Jean Nouvel, la tour Signal du même architecte, la tour Phare de Morphosis ou auparavant encore la tour Zehrfuss de 1960, ne semble capable de construire que des bâtiments sans ambition (la tour Montparnasse), le dernier en date étant le Forum des Halles. Dans ce contexte, l’échec architectural de la Tour Triangle est absolument programmé par la nature du commanditaire, plus encore que par la mutation iconique des architectes.
La pyramide du Louvre de Pei procédait du logo, mais en prenant appui sur la création d’une situation: la présence de l’obélisque. En ajoutant une pyramide à l’obélisque, Pei prolongeait une histoire devenue “post-moderne”. Quelle histoire racontent Herzog et De Meuron, sinon que la pyramide est devenue une grande signalétique à saisir depuis le périphérique ( …. ce qui cette fois la justifie)?
Dans quelles conditions le capitalisme produit-il une architecture réussie ( le Chrysler, le Seagram, HSBC à Hong Kong, la Lloyds à Londres…) ? Quand il se sait très riche, mais cela ne suffit pas; un sentiment positif, une conscience et une curiosité d’époque lui sont indispensables. A quelle condition un maître d’ouvrage public choisit-il un grand projet ( Le CNIT, Beaubourg…)? Il doit lui aussi posséder cet engagement dans l’époque et ressentir finement les mouvements internes de la culture architecturale.
2015 Si la tour Agbar est un logo, la piscine du Havre est une expérience du bain, le quai Branly une expérience touristique. Le Philarmonie s’est lui aussi “gonflé “depuis les maquettes initiales où les visiteurs se déployaient très librement sur les grands mouvements des formes et toitures. Le logo fait aussi mordre la poussière à Jean Nouvel, dont l’attitude plus “expérientielle” que les autres est depuis toujours conforme aux évolutions du marketing contemporain.
Loin de Georges Bataille, ou Raymond Roussel, “l’expérience commercialisable” – celle du cinéma commercial, des agences de voyages, des prix littéraires, des expositions d’art contemporain ou des centres commerciaux… – est le produit le plus vendu au monde.
Alors, pour 2015, après les logos, l’expérience?

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Last modified: 26 Settembre 2015