TORINO. Sarà che, almeno a livello inconscio, la massima «stucco e pittura fan sempre figura» ha una sua presa; o sarà che, nel passaggio dal piano al progetto molte delle promesse di redenzione correlate alla trasformazione delle aree lungo la Spina 4 sono andate perdute. Ad ogni modo, l’ingresso al MEF (Museo Ettore Fico), inaugurato nel settembre scorso, rivela un’inattesa catarsi.
Spazi netti dalle geometrie elementari; distribuzione schematica quanto efficace a pettine al livello terra, con percorso ad anello attraverso il livello superiore che ci evita di ritornare sui nostri passi; ambienti in sequenza declinati secondo il total white boxe. Eppure, solo a metà strada, ovvero nell’ultima sala aperta a tutt’altezza sulla copertura, e da qui salendo al livello superiore, si esperisce la forza del contenitore: la navata unica di un’ex cattedrale del lavoro lunga 100 metri e sviluppata trasversalmente più in altezza (17 metri) che in larghezza (10 metri).
Assurge così a nuova funzione un capannone della Sicme (Società industriale costruzioni meccaniche ed elettriche), costruito nel 1968 e dismesso nel 2004, grazie al progetto dell’architetto Alex Cepernich per la Fondazione Ettore Fico, nata nel 2007 per valorizzare l’opera del pittore di origine biellese (1917-2004).
Certo, si potrebbe obiettare che le potenzialità della preesistenza non siano state appieno sfruttate nella profusione di cartongessi, se non addirittura mortificate nella leggibilità dell’impianto spaziale dall’inserimento a mezz’altezza del massiccio solettone, che però consente così di raddoppiare la superficie espositiva grazie alla galleria superiore a spazio indiviso.
Ci sembra tuttavia più importante rimarcare la virtuosità e il coraggio di un’operazione, presentata in modo del tutto antiretorico, che innesca fermenti di cultura in un contesto che è periferico non solo dal punto di vista della geografia urbana.
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Last modified: 6 Ottobre 2015