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Laboratorio Africa

Laboratorio Africa

MILANO. Raccontare un continente intero in una mostra di cinque sezioni allestita in una sola grande sala. C’è dell’ambizione nel progetto della Triennale dedicato all’’Africa e condensato nell’esposizione «Africa. Big Change Big Chance», ospitata nello spazio Curva, al piano terra del Palazzo dell’Arte. Un territorio di 30 milioni di kmq che ospita 54 stati e 1 miliardo di abitanti, presentato attraverso foto di città, un catalogo di progetti moderni, alcuni modelli tridimensionali: materiali eterogenei che denunciano un preciso punto di vista, quello della cultura architettonica come fattore di trasformazione dei luoghi.
L’esito è un intricato insieme di prospettive erranti che conducono da Lagos a Maputo, da Nairobi al Cairo, soffermandosi su alcune architetture a loro modo iconiche, come la Africa Hall di Addis Abeba o l’Accra Trade Fair, e che privilegiano immagini aeree o zenitali, come quelle di Yann Arthus-Bertrand. Si ha così l’impressione che soltanto con uno sguardo distaccato sia possibile cogliere, e magari interpretare, le mille contraddizioni di un continente verso il quale nutriamo un rapporto per tanti versi problematico.
«Guardare alle cose d’’Africa dalle coste italiane, insomma, significa guardare a un mondo vicino, in molti sensi», scrive Alberto Ferlenga, il curatore di Triennale Architettura. Il suo testo di apertura nel catalogo della mostra (Africa, Big Change Big Chance, Editrice Compositori, Bologna 2014, pp. 320, euro 28) ha un titolo emblematico, Learning from Africa: è in quel continente che è possibile osservare compiutamente fenomeni di enormi dimensioni, dagli eventi distruttivi alle nuove forme di sfruttamento, capaci di trasformare in profondità la società e i suoi spazi fisici.
Da questo affascinante percorso emerge un’Africa che è sia «caso studio per eccellenza delle argomentazioni che riguardano le visioni del futuro e della sostenibilità, dell’architettura in senso vasto e campo verosimile di nuove sperimentazioni», sia «palestra di una concezione problematica della modernità». Sono entrambe definizioni di Benno Albrecht, curatore della mostra che ha allestito (insieme a Enrico Guastaroba, con il progetto grafico di Stefano Mandato) una successione di piani orizzontali (realizzati in legno, metallo, policarbonato, in parte di recupero) che si alternano a schermi e a immagini appese alle pareti, dividendo i materiali esposti in 5 sezioni tematiche: geografia delle quantità, architetture continentali, architetture della modernità, città della globalità, apparati.
Il tema della grande dimensione (il Big) è la linea guida, la sfida riconosciuta dell’Africa contemporanea, continente che, si calcola, tra 15 anni sarà abitato da 750 milioni di cittadini «urbani», ovvero più della popolazione totale dell’Europa. «L’“Africa del villaggio” sta diventando l’Africa delle città», scrive ancora Albrecht, puntando a sfatare un riflesso condizionato che caratterizza la nostra cultura. «È possibile che la città della globalità, la friche-città, la città decomposta e putrefatta, la megalopoli africana, sia vivaio operativo di soluzioni alternative alla città del nord, una forma di primitivismo ancora da immaginare”. Su questo crinale, il cambiamento, ineluttabile, si può trasformare in straordinaria opportunità, nesso logico riproposto nel gioco di parole che è il sottotitolo della mostra «Big Change, Big Chance».
Lo stimolante catalogo di progetti costruiti dal 1948 a oggi può offrire una prima risposta a questa opportunità. Da una parte ci sono lavori che assumono la modernità come valore irrinunciabile (alcuni a opera di architetti non africani, da Ernst May a Renato Severino, da Oscar Niemeyer a Fernand Pouillon). Dall’altra, architetture che invece sembra vadano alla ricerca di una (forse solo mitica) identità africana precoloniale, ovvero quell’invenzione di una tradizione che ha in Hassan Fathy la sua figura centrale. Si stacca da questa doppia condizione la maggior parte delle opere più recenti, caratterizzate da una forte influenza occidentale e contemporanea, sia in termini di linguaggio che di materiali e tecnologie. Nello scarto tra questi ultimi progetti e la storia di paesi e città africane, ripercorsa attraverso la proiezione di una serie d’immagini d’archivio, sta il senso più profondo del Change che la mostra vuole comunicare.

 

Autore

  • Michele Roda

    Architetto e giornalista pubblicista. Nato nel 1978, vive e lavora tra Como e Milano (dove svolge attività didattica e di ricerca al Politecnico). Dal 2025 è direttore de ilgiornaledellarchitettura.com

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Last modified: 4 Dicembre 2023