Sono più che mai interessato alle materie del giudizio critico, del riconoscimento della qualità architettonica e della tutela culturale e paesaggistica. Ne ho scritto nel libro Maledetti Vincoli. La tutela dell’architettura contemporanea (Allemandi 2012).
Aderisco senz’altro alla lettera, con cui concordo pienamente. Mi permetto solo di suggerire qualche accenno all’esigenza di aggiornare il Codice dei beni culturali. Mi sembra molto strano che si pensi di riorganizzare il Ministero (quante volte, negli ultimi anni? Segno d’incertezza e inequivocabile depotenziamento della funzione e dell’autorevolezza dell’intera struttura) senza contestualmente preoccuparsi di ciò che è alla base del suo operare, di cui si avverte la necessità di un sostanziale aggiornamento, non più procrastinabile.
Per la mia modesta esperienza, maturata attraverso contratti da esterno in alcune università italiane (attualmente Università Suor Orsola Benincasa a Napoli, corso in Legislazione beni culturali) il Codice, quando figura tra le docenze, ad Architettura o a Beni culturali, è una cenerentola; spesso insegnato da professori di giurisprudenza i quali curano gli aspetti teorici in collegamento con gli altri aspetti del Diritto, ma non quelli pratici che assumono spesso un’importanza sostanziale. E ciò perchè essi stessi non li hanno mai praticati. Ma il vero problema è che a Giurisprudenza (Diritto amministrativo) il Codice è una materia di nicchia, che nessuno conosce, nessuno insegna e nessuno apprende. Se ne vedono spesso gli effetti nelle sentenze dei vari TAR e Consiglio di Stato nei contenziosi. In tal senso, il collegamento più organico che il Governo prospetta con le università mi sembra che vada nella direzione giusta, salvo a verificarne le modalità. Tale elemento si potrebbe forse segnalare come positivo in aggiunta ai tre da voi indicati. E se ne potrebbero suggerire di modalità di applicazione.
Il Codice, poi, è spesso incomprensibile per gli utenti. L’articolo 10 è un elenco eterogeneo di “cose” di differente natura, di cui non si comprende l’ordine, come se si trattasse di beni lasciati da chi, improvvisamente deceduto, non abbia avuto il tempo di far testamento. Le schede dei cataloghi delle Soprintendenze sono incomprensibili per gli utenti e, del resto, non immediatamente consultabili (con l’Associazione Dimore storiche Campania ne stiamo formulando uno schema accessibile ai soci). Poichè il patrimonio culturale, com’è ampiamente noto, è in buona parte privato, occorre rendere questa legge intelligibile, depurandola dei bizantinismi, confusioni e contraddizioni accumulatesi nel tempo per dar voce a vari altri interessi. Occorre avvicinare la collettività all’istituzione, magari instaurando rapporti più strutturati con le maggiori associazioni di rilievo nazionale (FAI, Italia Nostra, DOCOMOMO, AAA Archivi di Architettura, Associazione Dimore storiche, Giardini storici, Archeologia industriale, ecc. che implicitamente individuano specifiche categorie di beni culturali). Soprattutto ora, in carenza di personale.
Quel che è certo, è che non si avvicina il Ministero alla collettività con decreti del tipo di quelli sui cinema storici e sulle librerie storiche, doppiamente inutili e inefficaci, nella forma e nella sostanza, buoni solo a creare false aspettative.
Infine, alcune (delle tante) chicche del Codice.
Nella lettera al Ministro si afferma giustamente che “Noi italiani siamo apprezzati nel mondo… per il nostro rapporto con il contesto”. Quante volte lo stesso Salvatore Settis lo ha scritto? Ebbene, nella legge il bene culturale (art. 10) e il suo contesto (art. 45) sono distanziati di ben 35 articoli,
oggetto, per di più, di procedure diverse: una distanza siderale, nella forma e nella sostanza. In Francia, Belgio, Inghilterra e tanti altri Paesi non è così, com’è ben noto.
Il vincolo italiano è rigido e assoluto, non ammettendo alcuna sorta di gradualità, se non quelle, del tutto formali e improprie, contemplate nell’art. 10: “interesse culturale” per i beni di proprietà pubblica, “interesse particolarmente importante” per quelli di proprietà privata. Gli effetti sono i medesimi, ma perchè collegare un elemento contingente e di mercato, come il regime di proprietà, con un fattore tendenzialmente universale e assoluto come il bene culturale?
Si continua a reiterare la norma dei 50 anni (legge Nasi, 1902), cui si sono aggiunti i 70 anni per i beni pubblici, imbavagliando il giudizio critico, bendando gli occhi dell’istituzione, facendo della prospettiva storica (necessaria, certo) un dato applicabile in termini burocratici e meccanicistici che finisce per privare l’Istituzione stessa della dinamica culturale indispensabile per recitare il proprio ruolo con la necessaria efficacia. Il contemporaneo non è il certificato anagrafico di un’opera, ma una condizione storica che investe anche il passato, da cui l’Istituzione non può essere tenuta fuori.
Perché un architetto deve morire affinché la sua opera sia riconosciuta d’interesse culturale? Diversamente che per un pittore, uno sculture o un artista d’altro tipo, per un architetto è vero il contrario. Theodore H. M. Prudon ha scritto che quando, nel 1998, fu affidato all’architetto Richard Johnson il piano di aggiornamento dell’Opera House a Sidney, questi chiamò l’ormai anziano Jørn Utzon, il cui contributo si rivelò fondamentale perché gli interventi previsti non stravolgessero l’opera.
Ma ci sarebbero tante altre considerazioni da fare.
In definitiva, direi che per aggiornare la nostra legge, dovremmo guardarci un po’ attorno, forse anche con un po’ d’umiltà, in un’ottica che non può essere autarchica ma adeguata alla natura internazionale del patrimonio, per di più in un’epoca in cui la globalizzazione ha portato sulla ribalta della tutela Paesi che spesso hanno pochi monumenti e molti siti, spesso solo naturali (nel primo rigo della lettera al Ministro si parla di “nostra ripresa in ambito europeo e internazionale”: come ciò potrà avvenire, se non guardiamo anche a ciò che fanno gli altri, come, ad esempio, la lettera sottolinea per la legge francese del 1977?). Credo che, sul piano mondiale, il concetto di sito stia traghettando progressivamente quello di monumento (Carte di Burra in Australia e di Aotearoa in Nuova Zelanda) e che la tutela di quest’ultimo, anche dei più recenti, trovi una valida prospettiva in un allargamento al contesto.
Alcune embrionali osservazioni e proposte di modifica del Codice (molto sintetiche e circoscritte), le ho pubblicate sulla Rivista giuridica dell’edilizia (fasc. 2-3, marzo-giugno 2011). Naturalmente, sarei lieto di contribuire in qualsiasi modo alle varie proposte.
Ugo Carughi
Docomomo Italia – Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Napoli