COMO. Grazie alle nuove tecnologie della comunicazione è stato avviato un dibattito sul progetto donato alla città dall’associazione Amici di Como, a firma dell’archistar Daniel Libeskind. L’avvenimento è un fatto che deve far riflettere sui rapporti che intercorrono tra democrazia e nuove tecnologie. L’intervento della rete nel dibattito sull’opportunità di realizzare il progetto ha dato una forma di analisi critica alla proposta che ha, di fatto, indebolito il filtro invalicabile d’incondizionata sovranità che la politica italiana mette sempre più spesso nelle proprie decisioni, siano o non siano comprese nel programma per il quale i sindaci delle città sono stati eletti.
Purtroppo il dibattito ha assunto anche forme un po’ “nevrotiche”, perchè giornalisti e giornali sono intervenuti senza far circolare le idee, ma solo con slogan da sondaggio plebiscitario, con le consuete banali distinzioni tra innovatori e conservatori, buoni e cattivi come in un buon film western. Ciò ha portato alla radicalizzazione delle posizioni, al tifo calcistico, vanificando la possibilità di condizioni di maturità di cui un dibattito democratico avrebbe bisogno.
La vicenda di Como solleva quindi in primo luogo il tema della trasparenza nei processi di decisione sulle nuove architetture della città, nel quale oggi i politici svolgono i ruoli una volta affidati agli architetti, e in secondo luogo riguarda il tema del comportamento discriminatorio della stessa politica di fronte all’apertura di un dibattito sulle idee.
Ma riassumiamo la cronaca dell’evento. L’Amministrazione comunale, nella persona del suo assessore all’urbanistica, ha adottato un progetto di un’associazione privata, gli Amici di Como, da collocare in una delle location più importanti e prestigiose della città. L’adozione è avvenuta nella massima segretezza, con una gestione politica chiusa e impenetrabile. Nessuno in città sapeva dell’iniziativa. Ma il segreto si è dissolto grazie a quelle poche persone che erano venute a conoscenza del progetto e non ne condivedevano l’adozione. A pochi giorni dall’adozione l’Amministrazione comunale è stata “costretta” a presentare ufficialmente il progetto misterioso alla città, la quale ha reagito con un’ampia discussione, inevitabili per l’importanza del luogo (non quella dell’architetto). E qui, come si dice, “casca l’asino”! La rete scopre subito che il progetto è identico a quello che l’archistar aveva ideato per la Gazprom nella città russa di San Pietroburgo, e quindi non rappresenta in alcun modo Alessandro Volta, a cui è ufficialmente dedicato. Le sue forme e proporzioni sono state studiate da Libeskind secondo il progetto russo, osservando i grandi archi delle costruzioni di San Pietroburgo e i pinnacoli che si elevano sopra i tetti della città. Nei fotomontaggi visti in rete non c’è alcun dubbio che il progetto sia un riciclo per la piccola città di Como, ignara di come funziona il mercato gloable delle archistar. Un classico riciclo come quei regali di nozze fatti senza coinvolgimento o affetto. Infine la rete discute del posizionamento sulla diga di fronte al fronte nobile della città. Nessuno comprende la relazione tra la figura di Volta e questo luogo. Non lo comprende perchè infatti non c’è: Libeskind risponde che la sua opera renderà più bella la città e quindi va posizionata nel luogo più visibile possibile. Infine all’architetto e all’assessore viene ricordato che intitolare il monumento all’elittricità non ha nessun riferimento a Volta, che ha inventato la pila!
Di fronte a tali perpessità il Comune di chiude a riccio, dicendo che a caval donato non si guarda in bocca. Donato? Anche di questo non si è sicuri. Di sicuro c’è solo che l’associazione Amici di Como parla di un costo di 150.000 euro per una struttura in carbonio alta 16 metri. Il che non è possibile.
Conclusioni? Le lascio ai lettori. Di sicuro credo che il cittadino che interroga dovrebbe essere una risorsa e non un impedimento alla costruzione della città.
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