Per la sua prima volta nella storia nazionale, la Nuova Zelanda si presenta alla Mostra Internazionale di Architettura di Venezia
, coronando anni di laboriosi tentativi e alcune partecipazioni alla Biennale dArte. Collocato a Palazzo Pisani, in Calle delle Erbe, Cannaregio 6104, ma geograficamente agli antipodi dellItalia, il paese dei kiwi propone una riflessione sullarchitettura in controtendenza alla linea europea-nordamericana, ragionando sulla sostenibilità dellabitare (alta densità vs bassa densità) e formulando una propria risposta alla «provocazione» lanciata da Koolhaas con Fundamentals. Ne parliamo con Tony van Raat, curatore del padiglione nazionale nonché preside della Unitec Institute of Technology di Auckland, la più grande università ad indirizzo tecnico del paese:
«Come dici tu, questa è la prima partecipazione nazionale della Nuova Zelanda alla Biennale. Abbiamo preso parte alla Biennale dArte per un certo numero di anni, ma questo è stato il mio terzo tentativo personale per approdare alla Biennale di Architettura. Infatti, nel 2010 ho lasciato troppo tardi per seguire una mostra itinerante di architettura, dal titolo «Trenta Case: Thirty Houses in New Zealand», che stava viaggiando in Italia, così come nel 2012. In quellanno, una squadra di talento progettò un padiglione temporaneo da disporre in un terreno libero presso la vecchia gru nel bacino dell’Arsenale. Tale tentativo non riuscì, a causa del terremoto di Christchurch e la Coppa del Mondo di Rugby, eventi che hanno reso impossibile per noi raccogliere i fondi necessari. La terza volta invece è stata più fortunata, ed è la prova, qualora ce ne fosse bisogno, che gli architetti devono essere ottimisti e rifiutarsi di mollare di fronte alle difficoltà, grazie anche al sostegno dellIstituto nazionale degli Architetti.
E così al presente. Il direttore creativo David Mitchell e il suo team hanno risposto alla provocazione di Rem Koolhaas circa lubiquità del modernismo e la consapevolezza dei fondamentali con un gesto di resistenza. Naturalmente accettiamo che ci sia molto di vero nella proposizione che il volto del modernismo, in particolare nelle mani dei meno capaci, sia più o meno universale. Ci sono edifici in Nuova Zelanda che potrebbero essere trasportati in Cina, o in Italia, in Svezia, in Venezuela, in Canada, negli Stati Uniti o quasi ovunque, e sarebbero invisibili nelle loro nuove location. Forse dovrebbero proprio essere trasportati là per far comprendere il fallimento dellarchitettura nel generare spazi, non importa quale sia la qualità del costruito che potrebbero prospettare. David Mitchell propone, invece, che tutte le contee esaminino la propria storia per scoprire aspetti delle culture sociali, tettonici o di altro tipo, che possano consentire a un architetto di relazionare edifici e spazi tra di loro. Questa particolarità potrebbe impiegare sia le tecnologie che le forme del modernismo (qualunque cosa questo termine così elastico possa significare), ma usufruendone in modi che sono differenti da quelli che si trovano altrove. Le differenze potranno così essere profonde o sottili, ma riconoscibili sia nello sguardo che nello spirito. In questo modo, anche il più piccolo dei paesi potrà contribuire al discorso globale in architettura, avendo la propria distinguibile voce.
Nel caso della nazione del Pacifico di Aotearoa/Nuova Zelanda, Mitchell trova questispirazione nellidea di scambio, e nella sua mostra essa è rappresentata dalla raffigurazione Tupaia, disegnata nel 1760, di un Maori e di un europeo nellatto dello scambiarsi merci, ossia un gambero per un pezzo di stoffa. Ripercorrendo la storia dellinsediamento di Aotearoa/Nuova Zelanda, se ne rievocano le origini, proprie dellAsia orientale, dei gruppi di isole dellest asiatico e del Pacifico, fino ai giorni nostri. Egli identifica questa storia legata alla luce, alle canoe flessibili che hanno reso incredibilmente lunghi i viaggi in acqua nellemisfero del Pacifico, e così anche alle abitazioni leggere che le persone hanno costruito nelle isole, sbarcando nel nostro paese. Solo con larrivo degli europei, nel tardo XVIII secolo, e il crescente flusso insediativo durante la prima metà del XIX, si trova un cambio sostanziale. Unarchitettura europea, basata sulla matericità e sul peso, venne a insediarsi in mezzo a unarchitettura locale che echeggia di grandi vele o di scafi, di tetti leggeri e con pareti a volte assenti. Lassimilazione di questi due filoni architettonici, ben distinti e differenti che Mitchell propone, è caratteristica del luogo che i kiwi chiamano casa. David è abilmente assistito nel suo compito da un team di talento, tra cui Rau Hoskins, praticante Maori ed accademico, nonché da altri accademici, professionisti, studenti ed artigiani. La mostra è ricca dimmagini di edifici e luoghi che si dipanano e illuminano la location.
Mitchell traccia perciò levoluzione dellarchitettura locale mostrando le caratteristiche che crede possano essere distintive, intimamente legate alla storia dei Maori e dei Pakeha (ossia gli europei, in lingua Maori). Infatti, il padiglione racconta una storia di scambi tra i popoli, che poi è una storia di scambi anche in architettura. «Questo, secondo il mio punto di vista, testimonia il fatto che l’architettura è essenzialmente sociale. È un’arte realizzata per motivi sociali e in modi sociali. Come è stato saggiamente detto, lo scopo dell’architettura è quello di consentire alle persone di vivere con dignità, e collegarla alle peculiari storie e tradizioni è un modo per realizzare questo scopo.
Ci sono, naturalmente, molte lacune nella società neozelandese e con i popoli che la compongono. Ci sono troppe carenze anche nelle sue architetture. Mitchell e il suo team offrono una riflessione tra le tante possibili, ma hanno il grande merito di essere coerenti e plausibili. Per la giuria che ha selezionato questo progetto, di cui ero il presidente, è emerso che si trattasse di una storia che collegava i popoli ed i luoghi con l’architettura, in un modo che ciò avesse senso. Tutte le società, e forse tutte le architetture, si basano in parte sul mito. Questo progetto ci sembrava ancorato alla realtà in un modo del tutto credibile per noi, così come confidiamo possa esserlo anche per gli altri».