Sono passate poche settimane dallarresto avvenuto a Teheran del gruppo di giovani le cui prodezze da ballerini sulle note di Happy sono state consegnate alloceano del web, e forse dal contributo iraniano alla Biennale ci si sarebbe aspettato qualcosa di più forte. Invece, entrando nel Padiglione ci si imbatte in una parete/timeline che lega le architetture della rivoluzione islamica con la produzione sotto gli Scià, alla ricerca di un fil-rouge della qualità. Messa in piedi in due mesi, per stessa ammissione della curatrice Azadeh Mashayekhi, questa corsa nel Novecento persiano composta da affascinanti immagini lascia in bocca il sapore di un interrogativo evaso: lo sforzo di sottolineare lesistenza di un ambiente fecondo alla sperimentazione è stato fatto, ma perché non cè traccia della produzione contemporanea?
Staccare qualche bella fotografia dal muro, come previsto dalletichetta, sarà la consolazione del visitatore.
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