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Written by: Professione e Formazione

Phyllis Lambert committente, curatrice e… leonessa d’oro!

Phyllis Lambert committente, curatrice e… leonessa d’oro!

Venezia. È stato attribuito alla canadese Phyllis Lambert il Leone d’oro alla carriera della 14. Mostra Internazionale di Architettura Fundamentals (aperta quest’anno al pubblico 6 mesi anziché 3, dal 7 giugno al 23 novembre). La decisione è stata presa dal Cda della Biennale di Venezia presieduto da Paolo Baratta, su proposta del direttore Rem Koolhaas, con la seguente motivazione: “Non come architetto, ma come committente e curatore, Phyllis Lambert ha offerto un eccezionale contributo all’architettura. Senza la sua partecipazione, uno dei pochi esempi di perfezione assoluta realizzato nel XX secolo, il Seagram Building a New York, non sarebbe mai esistito. La creazione del Canadian Centre for Architecture di Montréal combina una rara visione con una rara generosità nel conservare episodi fondamentali del patrimonio architettonico, e permette di studiarli in condizioni ideali. Gli architetti creano architettura; Phyllis Lambert ha creato architetti…”. Il riconoscimento a Lambert sarà consegnato ai Giardini della Biennale sabato 7 giugno 2014 alle ore 11, nel corso della cerimonia di premiazione e inaugurazione della 14. Mostra Internazionale di Architettura.

Di seguito riportiamo il testo integrale di un’intervista esclusiva rilasciata da Lambert a Michela Rosso, pubblicata nel numero 116 (inverno 2013) del «Giornale dell’Architettura».

«Devi costruire un edificio che esprima il meglio della società in cui vivi e, insieme, le tue speranze nel miglioramento di essa. Hai una grossa responsabilità, e il tuo palazzo non è solo per le persone che lavorano nelle tue aziende ma è per tutti, a New York e nel resto del mondo». È con queste parole che in un giorno d’inizio estate del 1954 la ventisettenne Phyllis Lambert, seduta alla scrivania del suo appartamento parigino, si rivolge al padre Samuel Bronfmann, fondatore della distilleria Joseph E. Seagram & Sons, cercando di mostragli l’errore madornale che sta per compiere: il progetto per gli uffici direzionali della società da costruirsi nell’isolato compreso tra Park Avenue, la 52esima e la 53esima strada a Manhattan, affidato allo studio Pereira and Luckman, manca della necessaria ambizione e va immediatamente abbandonato. Un facsimile della lettera di otto pagine è contenuto nell’appendice al libro Building Seagram pubblicato in aprile da Yale University Press, in cui la tradizionale impresa di tracciare la vicenda storica a partire dall’incarico progettuale fino alla definizione del progetto, dalla costruzione alla consegna, si estende ad abbracciare le controversie e i dibattiti che quest’icona dell’architettura del XX secolo fu in grado di attivare, il suo ruolo nelle discussioni sugli zoning codes, la tassazione degli immobili, la conservazione degli edifici del secondo Novecento. Sarà anche attraverso la donazione di 750.000 azioni della compagnia Seagram che nel 1979 vedrà la luce a Montréal il Centre canadien d’architecture di cui Lambert è tuttora Founding director e presidente del Board of Trustees.

Signora Lambert, quando ha iniziato a interessarsi all’’architettura?
Mi sono formata come scultrice e sin da bambina presentavo i miei lavori in esposizioni presiedute da giurie. In seguito iniziai a coltivare un certo interesse per l’architettura tradizionale di Montréal, le case in greystone e, una volta all’università, presi a seguire corsi di storia dell’arte, architettura e arte e, infine, vi fu la vicenda del Seagram che mi coinvolse in prima persona. Il mio interesse per il Seagram derivava dall’importanza che questo edificio rivestiva (e riveste) nella città. Un’importanza a livelli diversi: il Seagram è importante per le persone che vi lavorano, per i passanti, per l’area su cui l’edificio insiste e infine per la nuova qualità che fu in grado d’introdurre nel paesaggio urbano di New York e, in generale, nel mondo intero. Poi, certo, ebbi un ruolo nella conservazione stessa del Seagram, in particolare dopo che passò di proprietà nel 1979. In quel momento definimmo una serie di vincoli in linea con una rigorosa politica di conservazione: ogni intervento di manutenzione avrebbe seguito le indicazioni originali del capitolato. Si tratta, com’è noto, di un edificio in cui massima è la cura del dettaglio. Il mio interesse per l’architettura ricevette un ulteriore impulso negli anni in cui frequentavo l’università a Chicago, che si trovava in un’area gravemente danneggiata dalle demolizioni e da un generale abbandono. I danni tremendi subiti da città americane come Chicago e Detroit mi convinsero dell’importanza del mio impegno. Quando, dopo gli studi, ritornai a Montréal per un incarico progettuale, mi resi conto che non avrei mai voluto che lo stesso destino toccasse in sorte alla mia città, abitata da comunità in cui forte era il sentimento di appartenenza e orgoglio. Non volevo che la distruzione indiscriminata del patrimonio architettonico avesse luogo anche qui, ed è così che ha avuto inizio il mio impegno.

Tra le tante cose di cui si è occupata vorrei che ci parlasse del suo ruolo di attivista nelle campagne per la salvaguardia del patrimonio architettonico a Montréal, un aspetto forse meno noto al pubblico italiano, persino a quello specialistico. Quando e come iniziò a occuparsene?
La prima campagna, credo, ebbe luogo prima della fondazione di Heritage Montréal avvenuta nel 1975. Grazie agli studi condotti da una squadra di ricercatori per conto della provincia riuscimmo a classificare una parte importante del patrimonio architettonico cittadino, salvando dalla demolizione diversi edifici come il convento delle Grey Nuns e la Shaughnessy house, che dagli anni ottanta ospita una parte del Cca. Una delle azioni più significative ebbe luogo nel quartiere di Milton Parc, circa 700 unità residenziali nei pressi dell’Università McGill, anche noto come McGill ghetto, un gruppo di case in pietra grigia costruite nel corso del XIX secolo e dotate di un’intrinseca coerenza percepibile sui fronti prospicienti la strada, la cui sopravvivenza
era seriamente minacciata da un piano di lottizzazione. Fu l’intervento spontaneo degli abitanti a segnare una svolta decisiva: si presentarono a noi per chiedere aiuto e il risultato fu il più significativo progetto no profit di abitazioni in cooperativa canadese, destinato a un successo che continua ancora oggi. Ovviamente non fu facile: il progetto era finanziato dal governo federale attraverso la Canada Mortgage and Housing Corporation; bisognava adeguarsi ai nuovi standard imposti dai regolamenti e una forte opposizione ci mise i bastoni fra le ruote. Anche in seguito cercammo di riqualificare le abitazioni nei quartieri a basso reddito di Montréal e quando il governo federale cambiò i regolamenti sui finanziamenti pubblici all’edilizia demmo vita a un’organizzazione in grado di attirare investitori, non semplici donors ma soggetti imprenditoriali che impegnavano capitali nel miglioramento delle abitazioni per famiglie a basso reddito. Ovviamente non si trattava di residenze pregiate ma di case per appartamenti, che cercammo di riqualificare tramite interventi puntuali mirati alla ristrutturazione di servizi e impianti, al restauro delle facciate, alla sostituzione dei serramenti e al miglioramento dell’efficienza energetica, e gli effetti si videro subito. Interventi del genere sono in grado di fare la differenza, cambiando davvero le cose: un buon livello
di manutenzione delle case riduce la criminalità, sviluppa un sentimento di orgoglio e in definitiva cambia la vita di chi ci abita. In seguito ebbi un ruolo di responsabile del
restauro della sinagoga del Cairo e per quasi trent’anni feci parte del comitato dell’associazione Vieux-Port di Montréal, avviando a una serie di consultazioni pubbliche.

Da storica dell’architettura sono curiosa di sapere come la sua ricerca negli archivi del Seagram si sia confrontata con la memoria personale di quella vicenda risultante dalla sua esperienza diretta nel progetto e nella sua gestione: in quali casi i ricordi hanno corroborato i documenti e in quali, invece, la memoria ha contraddetto le testimonianze d’’archivio?
Beh, il ricordo personale risale a molti anni fa, in particolare per quel che riguarda le norme dello zoning in vigore nell’area adiacente il Seagram, soprattutto negli anni successivi alla sua costruzione. Preparando il volume ho cercato di capire di che cosa si fosse davvero trattato, ben al di là di ciò che avevo appreso su questo argomento dalla mia diretta esperienza nella vicenda. In seguito ho cercato di approfondire il tema della plaza nel lavoro di Mies. In un primo momento la plaza mi era sembrata né più né meno che il sagrato di una chiesa ma ben presto mi resi conto che c’era dell’altro. Barry Bergdoll, nel suo libro Mies in Berlin, aveva ben sottolineato l’attenzione al rapporto tra architettura e paesaggio nell’opera di Mies durante gli anni venti, e così fui in grado di leggere chiaramente questo tema e metterlo in relazione con i suoi progetti successivi in Nord America, dal campus dell’Illinois Institute of Technology alle torri per appartamenti che Mies aveva sempre dotato di una plaza: una sorta di oasi, un’area libera dentro la città. Ho poi approfondito il ruolo svolto da Philip Johnson nel progetto dell’illuminazione, un tema cui nessuno aveva mai prestato attenzione fino ad allora. In uno dei nostri primi incontri nel 1954, ricordo Philip ripetere ossessivamente «par38, par38», il nome di un modello di lampadina. Lavorando al libro mi sono resa conto di come questo suo progetto sull’illuminazione fu decisivo nel segnare il definitivo allontanamento dai linguaggi dell’International Style e nella successiva svolta verso il recupero dei temi della storia. Quindi, ho esplorato la relazione di Johnson con Richard Kelly da lui soprannominato «that genius lighting man» e il debito di Kelly verso Stanley McCandless della Yale School of Drama. Tutte vicende affascinanti e nuove per me. Johnson seguì alla lettera la teoria sviluppata da Kelly grazie a McCandless.

Il suo libro appare un lavoro pressoché unico di storia dell’architettura, la biografia di un edificio raccontata dal punto di vista del cliente.
Uno storico dell’arte italiano ha detto: «È come Vasari con Michelangelo». Del resto il Seagram è uno degli edifici più importanti del suo tempo e Mies uno dei maggiori architetti… In questo caso c’è qualcuno che era presente in quel momento e che è in grado di raccontarne la storia inserendola nel suo contesto. Il critico olandese Hans Ibelings ha recentemente riconosciuto il ruolo dell’articolo di un contratto firmato nel 1979 tra Seagram e Teachers Insurance and Annuity Association, futuri proprietari dell’edificio: un documento cui si deve la successiva integrità architettonica dell’edificio, ricco di prescrizioni su quanto si può (e non si può) fare nei primi 10 piedi di superficie destinata a uffici dietro le sue facciate.

Nell’ottobre 2012 questo giornale ha riportato il caso della riconversione della stazione di servizio progettata da Mies nell’Isle des Soeurs in un centro comunitario. Che cosa pensa di questo intervento e del lavoro fatto da Les Architectes Fabg? Qual è il destino di altri edifici di Mies in Canada, come Westmount Square?
La società nordamericana non è così sensibile al tema della conservazione, quando qualcosa cade a pezzi i nordamericani vanno semplicemente altrove; la conservazione non è qualcosa che praticano spontaneamente, come ad esempio mantenere in buona salute il proprio corpo. Si tratta di una consapevolezza che solo recentemente si sta diffondendo, come nel caso della Crown Hall e del campus dell’’Iit o gli appartamenti di Lake Shore Drive, tutti restaurati con ottimi risultati da professionisti che conoscevano bene Mies. A Montréal, l’Isle des Soeurs ha sollevato il seguente problema: «Che ne facciamo di una stazione di servizio che non è più tale?». Nell’occasione un gruppo di persone ha proposto di trasformarla in un centro destinato a bambini e anziani e gli architetti che hanno firmato il progetto, gli stessi che hanno restaurato la cupola di Bucky Fuller per l’Expo del 1967, hanno fatto un ottimo lavoro. Non hanno seguito Mies alla lettera, ne hanno dato un’interpretazione molto in bianco e nero; ma a restauro compiuto, l’impressione che quest’architettura comunica è ancora quella di una struttura potente, un luogo cui è sottesa una forte intenzione. Recentemente ho lavorato come consulente nella ristrutturazione delle tre torri, due residenziali e una commerciale, di Westmount Square a Montréal. Nella conversione della torre da uffici a residenze sono emersi alcuni problemi legati alla necessità di far entrare aria fresca nell’edificio e alla presenza di enormi finestre difficili da aprire, cui probabilmente gli architetti ovvieranno con l’inserimento di aperture a ribalta. Il che non è la fine del mondo. Mies amava ripetere che l’architettura non è un orologio. Nella Crown Hall, ad esempio, diminuì di due piedi l’altezza del padiglione contraddicendo la sua idea di proporzione e così facendo risparmiò un bel po’ di denaro. Mies era molto pragmatico.

In Italia il riconoscimento dell’architettura costruita dopo la seconda guerra mondiale come parte del patrimonio nazionale è un processo ancora in parte incompiuto. Di fatto, questa fase della produzione architettonica è solo recentemente divenuta oggetto di catalogazione sistematica. L’istituzione, relativamente recente, del Maxxi ha forse contribuito con il suo fitto programma di esposizioni, i suoi archivi e le sue collezioni a colmare, almeno in parte, quella che sembra una vera e propria lacuna culturale del nostro Paese. Ciononostante, le risorse destinate dallo Stato al patrimonio culturale, non solo architettonico, sono (al pari di quelle destinate alla ricerca e all’innovazione) ridicole, se si confrontano con ciò che avviene in altre parti d’’Europa.
D’altro canto, il sostegno privato e le forme di sponsorizzazione e mecenatismo culturale hanno in Italia un carattere poco più che episodico. Qual è la sua percezione dello stato dell’’architettura contemporanea in Italia? Come pensa si potrebbe agire per valorizzare al meglio un patrimonio almeno potenzialmente così redditizio?
Non è così difficile permettersi dei buoni architetti; essi non costano di più di quelli mediocri. Ad esempio, la sede di una scuola di yoga disegnata da un grande ufficio di progettazione e costruita nel 1957 a New York è un pessimo progetto. Com’è noto, la mancata comprensione dei problemi di ventilazione o isolamento si traduce in costi enormi di manutenzione. Il costo degli appartamenti di Lake Shore Drive non era superiore a quello di altri coevi a Chicago. È stupido non procurarsi un bravo architetto. E gli architetti oggi sono molto più consapevoli del fatto che devono mettercela tutta per far funzionare le cose e sono coscienti dei nuovi problemi ambientali ed economici. Quelli bravi lo sanno: l’architettura non è un lusso ma una necessità. Una delle cose che mi ha sempre enormemente impressionato dell’Italia è il contrasto tra i molti meravigliosi centri storici, ad esempio nei dintorni di Vicenza, dove sono stata di recente, o nell’area di Lecce e in tutta la Puglia, e la pessima qualità di molte aree residenziali intorno a essi. Viene da chiedersi dove abbiano studiato gli architetti che le hanno progettate, o forse molti di loro non erano nemmeno architetti. C’è qualcosa di molto sbagliato in questo stato di cose.

Recentemente ho visitato la mostra «Archaeology of the Digital» aperta a maggio al Cca. Ci può dare un’anticipazione dei prossimi appuntamenti del Centro?
Sono previste due altre mostre sul tema «Archeology of the Digital» e la mostra su Casablanca e Chandigarh che, ne sono sicura, sarà straordinaria, basata su un paziente lavoro di ricostruzione storica ma in una prospettiva sensibile ai problemi della città contemporanea.

Ora che il libro è uscito, quali sono i suoi progetti?
Ho intenzione di viaggiare, dal momento che ho smesso di farlo negli ultimi due anni. Ho un progetto, ma preferirei non parlarne, sul rapporto tra civiltà e architettura. E poi mi piacerebbe tenere un piccolo seminario, forse il prossimo anno, al Centro Palladio di Vicenza.

Chi è Phyllis Lambert
Nata a Montréal nel 1927, laureatasi in architettura nel 1963 all’Illinois Institute of Technology di Chicago, è Founding director e presidente del Board of Trustees del Centre Canadien d’Architecture (Cca), un centro internazionale di ricerca e museo nato nel 1979 a Montréal e basato sulla convinzione che l’architettura sia un tema d’interesse pubblico. Come Director of Planning del grattacielo Seagram a New York (1954-58) ha avuto un ruolo cruciale nell’affidamento dell’incarico a Mies van der Rohe. Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti internazionali per il suo impegno nella salvaguardia dei valori sociali e civili della memoria urbana e architettonica. In quest’ambito, nel 1975 ha fondato Héritage Montréal e nel 1996 il Fonds d’investissement de Montréal (Fim), l’unico fondo privato canadese che partecipa alla rivitalizzazione residenziale di quartieri a medio e basso reddito. Nel 2013 ha pubblicato Building Seagram per Yale University Press.
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Last modified: 22 Gennaio 2016