L’architettura è la costruzione e la produzione di cose con le quali lessere umano connette la natura immediata e fuggevole della propria esistenza
(Paulo Mendes da Rocha, 1981)
MILANO. Non avevo mai pensato di disegnare una sedia. Il design per me era sinonimo di occidente ricco, di paesi coloniali. Nel grande salone donore della Triennale il 5 maggio Paulo Mendes da Rocha (Vitória, 1928), seduto su una poltroncina Paulistano da lui progettata nel 1957, racconta il suo lavoro, una vita dedicata allarchitettura. A modo suo, aprendo il campo, fino a rendere impossibile tracciare dei confini precisi.
Dal 6 maggio al 31 agosto unesposizione è dedicata al grande maestro brasiliano col titoloTecnica e immaginazione, i poli entro cui si muove una delle vicende professionali più interessanti della storia contemporanea della disciplina. Non solo per gli esiti la qualità e la maturità del suo pensiero che diventa forma ma soprattutto per la portata e il valore del suo contributo intellettuale al contesto culturale nel quale è immersa.
Quella sedia una cesta sospesa su un tubo continuo combina la tecnologia dellacciaio con la sapienza antica del tessuto di fibra di palma Tucum delle amache degli indios. Impeccabile nella sua semplicità, concetto prima che oggetto, è una perfetta sintesi dellapproccio progettuale di Mendes da Rocha: unione di rigore visionario moderno e tradizione, radici e utopia.
Sullo sfondo lAmerica Latina, terra di paradossi e contrasti, luogo di quasi tutti i suoi lavori. A San Paolo realizza il suo primo edificio importante, il Ginásio do Clube Atlético Paulistano, nel 1958, dopo aver vinto un concorso. Un edificio strutturalmente e staticamente molto ardito ma pensato innanzitutto come teatro e piazza sospesa. Nel quale, qualche anno dopo, gli verrà impedito di entrare. Il Brasile è anche questo: un paese dove un luogo concepito come spazio pubblico può diventare allimprovviso e per arbitrio inaccessibile.
Dentro queste contraddizioni, estreme e senza mediazioni, si svolge la sua vicenda umana e professionale. Divisa tra il fermento culturale e limpeto trasformatore che, tra la fine degli anni ’50 e linizio dei ’60, trascinano il paese verso la ridefinizione del proprio immaginario collettivo e la repressione del regime militare che impedirà a questo fermento di diventare compiuta modernità. E allontanerà Mendes dallattività e dallinsegnamento per oltre 10 anni.
Mentre del suo lavoro ci parlano nel sobrio e rispettoso allestimento curato dallo studio PioveneFabi i materiali esposti (fotografie, disegni e schizzi, plastici, volumi appartenenti allautore e video girati appositamente per levento), Paulo Mendes ci accompagna nel suo mondo fantastico parlando dellarchitettura come di una forma peculiare di conoscenza, di un modo di pensare. Legata, per forza di cose, ai grandi temi delletica, della politica, dellecologia e della filosofia. E consapevole della propria responsabilità.
Unarchitettura che abbraccia un ambito pubblico aperto, senza limiti, con un rigore che è al contempo poetico e politico. Spazio pensato per essere divulgato, per diventare (come la poesia) patrimonio comune. Luogo dincontro. In cui non si può non entrare.
Il progetto di architettura, per Mendes, interpreta il desiderio di cambiamento delluomo, denuncia la sua natura di essere fragile, esprime la necessità di adattamento a un mondo che continua a cambiare: sintesi tra arte e tecnica, ha una dimensione eminentemente sperimentale (Sappiamo solamente cosa non dobbiamo fare, non cosa stiamo facendo) e non è affermazione di sapere.
È un discorso sul mondo, che stabilisce il confine tra natura e cultura. E che trasforma la realtà, rendendo abitabile ciò che prima non lo era. È una sfida sempre nuova, dentro una trasformazione permanente, non prevedibile. È trasformazione fisica, che presuppone il rapporto con gli altri, la relazione, e il cui obiettivo più alto resta la costruzione della città, il sogno di una città per tutti: un posto per stare insieme e conversare.