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Abilitazione scientifica nazionale: errori materiali, irregolarità e palesi violazioni di legge

Gentile Direttore,
nelle ultime settimane sugli organi di stampa si sono moltiplicati gli articoli che hanno sollevato dubbi e perplessità sui risultati dell’ultima procedura di abilitazione nazionale universitaria, denunciando la scorrettezza dell’operato di alcune commissioni. Lo stesso Ministro della Pubblica istruzione, nel suo primo intervento pubblico a Padova, ha dichiarato che «la complessa vicenda delle Abilitazioni scientifiche nazionali (ASN) reclama chiarezza».
È proprio in nome di questa condivisa esigenza di chiarezza che vogliamo portare all’attenzione dei suoi lettori l’incredibile numero di errori materiali, irregolarità e palesi violazioni di legge che hanno caratterizzato l’operato della commissione giudicatrice del settore 08/E2 (Storia dell’architettura e Restauro). Sulla questione sono già uscite tre lettere sul sito www.roars.it – l’ultima firmata da oltre la metà degli ordinari del settore ICAR/18 (Storia dell’architettura) ? che mettono apertamente in discussione la condotta dei commissari, chiedendo al Ministro di procedere alla nomina di una nuova commissione e di riaprire contestualmente la seconda tornata, cercando così di sanare almeno in parte i guasti della situazione. Dal canto nostro, ci sembra importante circostanziare queste richieste con qualche dato concreto, per attestare come in questo caso la questione non si riduca davvero a una polemica fra opposti schieramenti accademici, o alle recriminazioni di qualche escluso, ma chiami in causa un problema di carattere ben più generale: la tutela della dignità di una comunità scientifica, e una professione, oggi incrinata da un malcostume che sarebbe interesse di tutti emarginare e combattere.

Verbali lacunosi e scorretti
I verbali redatti dalla commissione risultano infarciti di contraddizioni ed errori materiali: se alcuni possono forse essere imputati a sviste formali, altri sembrano invece tradire gravi scorrettezze sostanziali. Dagli atti, per esempio, manca senz’alcuna motivazione il verbale di una seduta (quella del 15 luglio 2013, annunciata nel verbale n. 7 del 19 giugno e poi apparentemente annullata); nella Relazione finale i commissari dichiarano di aver «preso in considerazione, per la stesura dei giudizi, gli indici aggiornati secondo quanto comunicato da nota ministeriale dell’8 novembre 2013», quando altrove sostengono di aver provveduto a «formulare i giudizi complessivi per ogni candidato» quattro giorni prima di quella data, il 4 novembre. E ancora: nella prima seduta del 25 febbraio 2013 la commissione dichiara che «i giudizi individuali e collegiali espressi su ciascun candidato […] costituiranno parte integrante dei verbali», ma poi si guarda bene dal rispettare questa elementare norma di trasparenza, facendo passare oltre quattro mesi (dal 6 giugno al 18 ottobre) fra la stesura dei giudizi dei candidati di II fascia e la loro inserzione nel sistema informatico del ministero. Semplice trascuratezza, o un modo per lasciare libero corso alle contrattazioni, in base a logiche ed equilibri del tutto estranei al merito dei curricula presentati dai candidati?

La questione dei tempi
Nella seduta preliminare del 25 febbraio 2013 sono i commissari stessi a dichiarare di volersi attenere al principio di «prevedere, per ogni blocco di domande esaminate, un incontro collegiale per la verbalizzazione dei giudizi individuali e la formulazione di quelli collegiali». In realtà, quel che i verbali certificano al di là di qualsiasi ragionevole dubbio è che sia avvenuto proprio il contrario, e cioè che la gran parte dei giudizi collettivi non siano stati scritti insieme dai commissari durante le riunioni, bensì preparati in separata sede senza alcun vaglio collegiale. Ripercorriamo il lavoro della commissione, così come emerge dalle sue stesse dichiarazioni:
– i commissari dedicano quattro sedute alla discussione dei titoli presentati dai candidati per la II fascia: il 26 marzo (dalle 14 alle 19.30) la commissione si riunisce in via telematica e confronta i giudizi individuali su 190 candidati, dedicando quindi a ciascuno di essi (se pensiamo a un tempo omogeneamente distribuito) circa 1 minuto e 40 secondi. Il 6 maggio (dalle 14 alle 19.30) la commissione confronta, sempre in via telematica, i giudizi individuali su altri 203 candidati, discutendo anche su un certo numero di candidati i cui giudizi erano rimasti in sospeso dalla volta precedente. Non considerando questo dato e limitandoci ai 203 candidati esaminati in 330 minuti, il tempo dedicato a ciascuno di essi è di circa 1 minuto e 37 secondi. Il 6 giugno (dalle 9 alle 13.30 e poi dalle 14.30 alle 19.45) la commissione si riunisce in via telematica, completa il lavoro svolto e contestualmente avvia la stesura dei giudizi sulla piattaforma del Cineca: nel giro di 615 minuti vengono esaminati tutti e 394 candidati, a ognuno dei quali viene dedicato 1 minuto e 34 secondi. Arriviamo al 18 ottobre 2013: per la prima volta (dal 24 gennaio!) la commissione si riunisce fisicamente presso l’Università Politecnica delle Marche e procede alle decisioni finali, con l’eccezione di due candidati per i quali vengono chiesti i pareri pro veritate. La riunione dura dalle 9.30 alle 14.00: altri 41 secondi a ciascun candidato, al termine dei quali si allega al verbale la valutazione finale dei candidati.
Riassumendo, la commissione dichiara di fatto di avere impiegato complessivamente circa 5 minuti e 32 secondi a testa (di cui solo 41 secondi in seduta plenaria, non mediata da vie telematiche) per discutere e confrontare i giudizi individuali, nonché estendere i giudizi collegiali. L’impresa risulta materialmente impossibile per chiunque, e se ne deduce che la dichiarazione è falsa.
– Per i candidati alla I fascia i tempi sono ancora più stretti: le prime due riunioni (7 e 19 giugno, otto ore complessive)sono state dedicate alla discussione del profilo dei 134 candidati (dunque: tre minuti e mezzo a candidato). È chiaro come in queste prime due sedute (telematiche entrambe) non ci sia stato materialmente il tempo per leggere i giudizi eventualmente formulati dai singoli docenti, né per confrontarsi seriamente in merito al profilo dei candidati, dati anche i giudizi spesso discordanti fra i membri della commissione. La terza riunione, telematica (1 novembre, 90 minuti) è stata interamente dedicata alla discussione sulla richiesta di pareri pro veritate su due candidati. Nel corso della quarta e ultima riunione (4 novembre, dalle 9.30 alle 19.00), la commissione dichiara di aver proceduto al «riscontro dei giudizi individuali espressi dai diversi membri» e a «formulare i giudizi complessivi» per ognuno dei 134 candidati.
I commissari sostengono dunque di aver impiegato poco più di quattro minuti a candidato per redigere dei giudizi collegiali di più o meno una pagina a testa: in realtà, pare assai difficile che abbiano avuto il tempo anche solo di leggerli collettivamente.

La sommarietà dei giudizi
La normativa vigente stabilisce che la concessione o meno dell’abilitazione sia accompagnata da un «motivato giudizio fondato sulla valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche» (L 240/10, art. 16, c. 3): un principio ripetutamente ribadito anche in seguito, da ultimo nella CM del 27.05.2013 («il giudizio collegiale deve necessariamente contenere […] la valutazione analitica dei titoli posseduti e delle pubblicazioni scientifiche prodotte dal candidato»).
È sufficiente un rapido esame dei giudizi allegati ai verbali per rendersi conto che in innumerevoli casi questi sono ben lungi dal potersi definire «analitici»: spesso le considerazioni dei commissari si riducono a sbrigative bocciature (o promozioni) di un paio di righe, tanto opache quanto superficiali. Un solo esempio per tutti: una candidata, già borsista della Scuola Archeologica di Atene, ricercatrice dal 2004 presso la Facoltà di Architettura di Bari, presenta dal 1990 ad oggi 62 pubblicazioni, fra cui quattro articoli usciti su riviste di fascia A. Ecco il giudizio di uno dei commissari: «La candidata, che vanta un discreta familiarità con il mondo accademico, ha dedicato le sue attenzioni di studiosa prevalentemente a temi di natura archeologica. I risultati da lei conseguiti non sono ancora tali da meritarle l’ottenimento dell’abilitazione all’insegnamento universitario della Storia dell’Architettura o del Restauro nel ruolo di seconda fascia».
La sommarietà di cui dà prova il commissario – che in questo caso ritiene di poter fare tranquillamente a meno di entrare nel merito delle ricerche specifiche che dovrebbero essere oggetto del suo giudizio – risalta ancor più se la confrontiamo con la meticolosità di cui il medesimo commissario dà prova in altri casi. Come per esempio quando si tratta di giudicare una giovane candidata, che presenta solo sei articoli e tre brevi note di poche pagine ciascuna, per la quale ? evidentemente ritenendo insufficiente l’ulteriore parere pro veritate allegato agli atti – arriva a scrivere un giudizio di oltre 24 cartelle (sì: 24 cartelle di 2000 battute!), producendo, non richiesto dalla procedura, diverse lettere di presentazione di colleghi stranieri. Perché mai solo in questo caso? Puro amor di verità? O non abbiamo qui piuttosto una plateale forma di discriminazione, contraria alle disposizioni legislative, che non prevedono questo tipo di ‘titoli’ che certo un gran numero di candidati avrebbe potuto sin troppo agevolmente produrre?

La questione delle mediane
La normativa relativa all’ASN è chiarissima nell’individuare un articolato sistema di indicatori, parametri, mediane tali da costituire per i commissari una griglia di riferimento quanto più possibile trasparente e verificabile (L 240/2010, art. 16, c. 3, lettere a, b, c, h; DPR 222 del 14-09-2011, art. 6, c. 4-5; DM 07-06-2012, art. 1 e 6, c. 3-5). Certo, le commissioni potevano prescindere da questi indicatori, fermo restando tuttavia il principio che dovevano coscienziosamente motivare qualsiasi deroga in proposito: «le commissioni possono non attribuire l’abilitazione a candidati che superano le mediane prescritte […], ovvero possono attribuire l’abilitazione a candidati che, pur non avendo superato le mediane prescritte, siano valutati dalla commissione con un giudizio di merito estremamente positivo. Resta fermo che ogni decisione della commissione, relativamente a quanto precede, dovrà essere rigorosamente motivata secondo quanto previsto dall’art. 6, c. 5 del citato decreto […], sia in sede di predeterminazione dei criteri che di giudizio finale» (CM 754 dell’11.01.2013).
Peraltro, nell’incontro preliminare la commissione dichiarava di recepire fra i parametri di giudizio proprio il «numero e tipo delle pubblicazioni presentate e loro distribuzione sotto il profilo temporale», nonché l’«impatto della produzione scientifica complessiva misurato mediante indicatori di cui all’art. 6 e all’allegato B del DM 76 del 07.06.2012». Si tratta di dichiarazioni puramente di circostanza: in palese contrasto con la normativa, nei giudizi individuali dei singoli commissari, come in quelli finali, non compare MAI il minimo riferimento ai predetti indicatori. Questo silenzio è presto spiegato: se avessero esplicitato i loro criteri di giudizio, i commissari si sarebbero trovati nell’imbarazzante situazione di dover ammettere (e giustificare…) il fatto di aver tranquillamente ignorato gli indicatori e le mediane predeterminate dalle norme di legge. Per rendersene conto, è sufficiente fare riferimento alle dettagliatissime tabelle pubblicate da Moreno Marzolla nella sua analisi dei risultati dell’ASN (www.moreno.marzolla.name/software/asn/): nel settore 08/E2, circa il 24% dei candidati abilitati dalla commissione alle funzioni di professore di I e di II fascia non supera nessuna mediana o ne possiede solo una. Viceversa, circa il 20% dei non abilitati alla II fascia e circa il 24% dei non abilitati alla I fascia supera tutte e tre le mediane.
Ora, è ben vero che le mediane di per sé non costituiscono un indice qualitativo, bensì solo quantitativo, e che la commissione doveva senz’altro ponderare questi dati entrando nel merito delle ricerche dei candidati; ma non poteva ignorare arbitrariamente gli indicatori senza giustificazione alcuna! Sia perché lo richiedeva la legge, sia per non incorrere nel sospetto che dietro incongruenze e disomogeneità così manifeste non si nasconda altro che faziosità e clientelismo.

La commissione si autotutela…
Gli atti di cui sopra sono stati pubblicati il 17 febbraio 2014, con l’eccezione dei giudizi relativi a cinque candidati (De Cesaris e Pace per la I fascia; Pierconti, Rago e Sampò per la II), in base alla procedura di Autotutela garantita dalla L 241/1990, art. 21-quater, c. 2, «allo scopo di evitare gravi incertezze sull’esito delle valutazioni in questione, nelle more dell’intervento in autotutela». Evidentemente, tuttavia, tali e tante erano la resipiscenze della commissione che quest’ultima è intervenuta a modificare i giudizi – talvolta molti giorni dopo la pubblicazione degli stessi! – in moltissimi altri casi: alla fine del mese di marzo i giudizi rivisti dalla commissione in base alla procedura di Autotutela risultano complessivamente 64 (11%). Perché in questi casi non si è sospesa da subito la pubblicazione degli atti? Che garanzie di regolarità dà una procedura in cui oltre un giudizio su dieci è stato modificato dalla Commissione dopo la pubblicazione degli atti?

L’incoerenza dei criteri di giudizio
Gli avvocati che alcuni di noi hanno consultato sostengono che ci sia di che invalidare tutta la procedura. Se ne occuperanno i tribunali competenti. Per noi, però, la questione fondamentale non è tanto d’ordine giuridico, quanto culturale: non è certo solo per i tanti vizi di legge che vogliamo portare all’attenzione pubblica le deplorevoli procedure seguite dalla commissione del settore 08/E2. Già Tomaso Montanari qualche settimana fa si è soffermato in un suo intervento su «Minima Moralia» sul linguaggio equivoco, ambiguo, sostanzialmente disonesto e fazioso usato da altre commissioni (www.minimaetmoralia.it/wp/abilitazioni-universitarie-storia-dellarte/). Non meno opaco sembra il linguaggio usato dai nostri commissari. Faremo solo qualche esempio fra i molti possibili: uno degli argomenti usati più spesso per eliminare i candidati invisi, ma ‘purtroppo’ provvisti di un solido curriculum, è la scarsa attinenza disciplinare delle loro pubblicazioni (un argomento usato molto spesso, forse non a caso, nei confronti dei candidati che si sono occupati di storia urbana).
Così, a un candidato che nel suo curriculum presenta fra l’altro una monografia (premiata con il «Sir Nikolaus Pevsner International Book Award for Architecture» del RIBA) e 8 articoli in riviste di fascia A viene contestato il fatto che «il metodo investigativo è orientato a mettere in evidenza […] non solo il clima socio-economico dell’epoca ma anche la facies culturale dei luoghi, sottolineando il ruolo esercitato da illustri mecenati e umanisti. L’attenzione del candidato è pertanto incentrata sugli aspetti estrinseci della progettazione architettonica e urbana, mentre modesto sembra l’interesse per le componenti figurali e costruttive delle architetture indagate». Il giudizio pare dunque manifestamente ignorare le indicazioni della declaratoria del settore 08/E2, che recita testualmente: «Nel campo della storia dell’architettura i contenuti scientifico-disciplinari riguardano la storia della cultura e delle attività attinenti alla formazione e trasformazione dell’ambiente, in rapporto al quadro politico, economico, sociale e culturale delle varie epoche. In particolare, i contenuti scientifico-disciplinari riguardano: gli argomenti storici concernenti gli aspetti specifici di tali attività, dalla rappresentazione dello spazio architettonico alle tecniche edilizie; la storia del pensiero e delle teorie sull’architettura; lo studio critico dell’opera architettonica, esaminata nel suo contesto con riferimento alle cause, ai programmi ed all’uso, nelle sue modalità linguistiche e tecniche, nella sua realtà costruita e nei suoi significati». Del resto, è lo stesso Regolamento della procedura di abilitazione (DM 07.06.2012, art. 4, c. 2) che ribadisce il principio secondo cui «nella valutazione delle pubblicazioni scientifiche presentate dai candidati […] la commissione si attiene ai seguenti criteri: a) coerenza con le tematiche del settore concorsuale o con tematiche interdisciplinari ad esso pertinenti».
Ma se la commissione voleva davvero farsi portavoce di un’interpretazione restrittiva dell’identità disciplinare, come mai fra gli idonei troviamo studiosi caratterizzati da un profilo ancor meno coerente con le buone vecchie tradizioni d’antan, come storici della fotografia o della rappresentazione prospettica?
Un altro argomento ad excludendum usato spesso è il «localismo» degli studi di un candidato; sull’ambiguità di questo criterio si è già espresso Marco Rosario Nobile in un intervento pubblicato sul blog http://storiedellarte.com. Peraltro, va rilevato che l’argomento viene usato dalla commissione in modo totalmente disomogeneo e contraddittorio, e spesso non sembra altro che un pretesto per eliminare i candidati invisi ora all’uno, ora all’altro commissario. Per esempio una candidata di II fascia, autrice di 79 pubblicazioni (fra cui due monografie, sei volumi in curatela, innumerevoli interventi a convegni internazionali dedicati a svariati argomenti di storia dell’architettura veneta dal Cinquecento all’Ottocento, nonché sull’architettura civile europea e sulla storia urbana di Carpi e di altri piccoli centri italiani nel Rinascimento), viene sbrigativamente liquidata dalla commissione in quanto i suoi studi sarebbero «rimasti prevalentemente confinati nell’ambito locale». Viceversa, nel caso di un’altra candidata che presenta solo 9 pubblicazioni dedicate quasi esclusivamente a un singolo edificio (Palazzo Farnese a Caprarola), le ricerche svolte ? pur «edite con discreta discontinuità» (?) recita il giudizio collegiale – avrebbero «offerto apporti storiografici originali» tali da renderla idonea all’abilitazione.

In conclusione
Potremmo continuare a lungo a citare giudizi contraddittori, capziosi, che occultano l’uso sistematico di diversi pesi e misure, sottraendosi all’obbligo di rispettare i parametri previsti dalla procedura per poter valutare i candidati in base a criteri sostanzialmente svincolati dalla rispettiva produzione scientifica, e legati piuttosto alla loro appartenenza o meno a determinate ‘scuole’ o cordate di potere accademico. E qui arriviamo al punto.
Senza dubbio, la procedura era viziata dai difetti e dai limiti oggettivi dei sistemi di valutazione introdotti dalle ultime riforme universitarie, e il lavoro dei commissari è stato reso ancor più difficile dal numero abnorme dei candidati. Ma il fatto è che nei vari settori concorsuali le commissioni si sono contraddistinte per comportamenti molto diversificati, e non tutte si sono sentite libere di allontanarsi così scopertamente dalla lettera e dallo spirito della legge. È vero, le regole del gioco non erano le migliori possibili, e forse il gioco stesso non poteva che dare esiti discutibili. Però giocare con carte truccate, come ha fatto questa commissione, è un’altra cosa: che non ha nulla a che vedere con le questioni di politica universitaria, ma solo con le responsabilità individuali. Con ciò non vogliamo affatto contestare la legittimità dei giudizi positivi ottenuti dai molti colleghi meritevoli che hanno giustamente avuto l’idoneità (e a cui esprimiamo tutta la nostra stima). Semplicemente, crediamo nella forza della verità: questa vicenda ha messo a nudo la degenerazione dei nostri sistemi di reclutamento. Nulla di nuovo, in questo, salvo le proporzioni sistemiche ormai assunte dal fenomeno, avallate anzi incentivate dalla nuova procedura.
Però forse non tutto è stato detto, ancora. Evidentemente i commissari credevano di poter contare su connivenze diffuse e generalizzate: ma andrà veramente così? Nei prossimi mesi saranno reclutate le persone che reggeranno (e satureranno) le nostre università per molti anni a venire, e gli organi accademici saranno chiamati a scelte che incideranno profondamente sul futuro della nostra disciplina. Starà a loro, e alle commissioni che saranno nominate per procedere alle chiamate, recepire passivamente i giudizi formulati in questa prima tornata di abilitazioni, o correggerne almeno in parte gli orientamenti. Una cosa è certa: la fisionomia e l’identità stessa di ogni sede universitaria verranno da queste scelte durevolmente ridisegnate.

Marco Folin (Università di Genova); Massimiliano Savorra (Università del Molise); Elena Svalduz (Università di Padova); Giorgio Ortolani (Università di Roma III); Monica Livadiotti (Politecnico di Bari); Maria Beatrice Bettazzi (Università di Bologna); Gerardo Doti (Università di Camerino); Maria Rosaria Vitale (Università di Catania); Milva Giacomelli (Università di Firenze); Filippo De Pieri (Politecnico di Torino); Maria Vittoria Capitanucci (Politecnico di Milano); Carmelo Malacrino (Università di Reggio Calabria); Antonello Alici (Università Politecnica delle Marche); Christian Campanella (Politecnico di Milano); Paola Barbera (Università di Catania); Giuseppina Pugliano (Università di Napoli “Parthenope”); Giovanna D’Amia (Politecnico di Milano); Maria Cristina Loi (Politecnico di Milano); Roberto Dulio (Politecnico di Milano); Michela Rosso (Politecnico di Torino); Guglielmo Villa (Università di Roma “La Sapienza”); Michela Comba (Politecnico di Torino); Andrea Maglio (Università di Napoli “Federico II”); Simona Benedetti (Università di Roma “La Sapienza”); Simona Salvo (Università di Roma “La Sapienza”); Gemma Belli (Università di Napoli “Federico II”); Sebastiano Roberto (Università di Siena); Mauro Volpiano (Politecnico di Torino); Chiara Baglione (Università “Kore” di Enna); Ornella Cirillo (Seconda Università di Napoli); Alessandra Maniaci (Università Mediterranea di Reggio Calabria); Sandro Ranellucci (Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara); Marco Cadinu (Università di Cagliari); Laura Zanini (Università di Cagliari); Teresa Colletta (Università di Napoli “Federico II”); Paola Raggi (Senigallia); Fausto Testa (Politecnico di Milano); Emanuela Garofalo (Università di Palermo); Anna Anzani (Politecnico di Milano); Maria Margarita Segarra Lagunes (Università di Roma III); Paolo Vitti (Università di Roma “La Sapienza”); Gianluigi Lerza (Università di Roma “La Sapienza); Alessandro Castagnaro (Università di Napoli “Federico II”); Fulvia Scaduto (Università di Palermo); Chiara Occelli (Politecnico di Torino); Annalisa Dameri (Politecnico di Torino); Stefania Tuzi Portoghesi (Università di Roma “La Sapienza”); Valeria Farinati (ricercatrice italiana all’estero).

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Last modified: 3 Luglio 2015