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Written by: Città e Territorio

Venezia: i tre rischi mortali

Forse, e per fortuna, l’investimento da un miliardo e mezzo di euro non si troverà, ma in caso contrario a luglio il Comune autorizzerà l’avvio dei lavori per la costruzione del Palais Lumière, un grattacielo alto 250 m (40 in più della tour Montparnasse di Parigi) voluto da Pierre Cardin a Marghera, a una decina di chilometri da piazza San Marco. Anche se il sindaco Giorgio Orsoni assicura che la torre non rovinerà lo skyline di Venezia, «the art newspaper», di cui sono direttrice e fondatrice, ha pubblicato un fotomontaggio, ricavato da calcoli matematici, della vista dal lido, la striscia di terra di fronte a piazza San Marco che separa la laguna dall’adriatico. Il grattacielo si vedrebbe dall’imbarcadero di Santa Maria Elisabetta, alta 2/3 del campanile di San Marco, e sciuperebbe l’immagine iconica (qui il termine è quanto mai appropriato) che noi tutti abbiamo in mente. Non è vero, dice il sindaco con ostinazione. così ho chiesto un’analisi dei calcoli agli esperti dello studio di consulenza Millerhare che fa questo tipo di proiezioni per tutti i grattacieli di Londra. Anche loro, come moltissime persone non veneziane, amano la città e hanno accettato di donarci la loro competenza. I risultati confermano i nostri.
Che cosa sta succedendo davvero? Succede che negli ultimi trent’anni Venezia è diventata oggetto di così tanti dibattiti politicizzati, la cui prima vittima è stata la verità, che un calcolo aritmetico può essere trattato come una questione di opinioni e la maggior parte della gente si limita a fare spallucce. Dietro quanto viene qui descritto,c’è proprio questo atteggiamento.
Quando nel 1987 è stata dichiarata sito patrimonio dell’umanità dall’Unesco, Venezia avrebbe dovuto varare un piano di gestione. A marzo di quest’anno il consiglio comunale lo ha finalmente presentato al pubblico. Negli intenti del consiglio, il piano «definisce le strategie e seleziona le modalità di attuazione in Piani di azione». Peccato che il documento tradisca quasi del tutto entrambi gli obiettivi, visto che gli autori hanno ignorato le questioni più importanti.
Il riconoscimento di sito patrimonio dell’umanità non viene conferito spontaneamente dall’Unesco, ma prevede che sia lo stato-nazione a farne domanda. È stata l’Italia a chiedere che Venezia entrasse nella lista. La città, ovviamente, soddisfaceva i requisiti necessari e in cambio del titolo l’Italia si è impegnata a produrre un piano di gestione e a definire una buffer zone (area di protezione) intorno a Venezia. Essere sito patrimonio dell’umanità non assicura alcun finanziamento, perché per quest’anno l’Unesco dispone di appena 3,25 milioni di dollari da investire nelle sue attività e in tutti i suoi siti (oltre ai 4,5 milioni per mandare avanti gli uffici e ai 7,5 milioni per singoli progetti, tra cui quello del Mali).
Tutto ciò che l’Unesco può fare è vigilare e, se nota abusi grossolani, protestare, presentare rimostranze formali al paese coinvolto, spostare il sito nell’elenco dei patrimoni a rischio e, come ultima risorsa, privarlo del titolo. Questo, però, è successo solo un paio di volte, perché c’è molta riluttanza diplomatica e politica. A Venezia l’Unesco ha una sede che però non si occupa della città. Il suo compito è fornire competenze scientifiche e culturali all’Europa sud-orientale, anche se un membro dello staff ha l’incarico di amministrare il denaro destinato ai progetti di restauro donati da enti no profit quali World Monuments Fund, Save Venice, Venice Heritage Inc. e Venice in Peril Fund (di cui sono stata presidente dal 2000 al 2012). In altri termini, se la sede dell’Unesco di Venezia nota un uso improprio dello status di sito patrimonio non può intervenire in alcun modo se non inviando un rapporto al quartier generale di Parigi.

Troppe grandi navi

Nel 2006 il governo italiano ha stabilito che tutti i siti Unesco del paese dovessero presentare il loro piano di gestione e a novembre del 2012 quello di Venezia è stato finalmente approvato dal consiglio comunale, che nel 2007 era stato incaricato dai venti enti (governativi, regionali e comunali) coinvolti nella gestione della città e della sua laguna a redigerlo e a essere il referente ufficiale dello stato e dell’Unesco.
Il piano è un documento di 157 pagine frutto, a quanto si legge, della consultazione di 250 enti pubblici, con 136 proposte. Non si sa chi siano gli enti, ma ho scoperto che il noto comitato No Grandi Navi non è stato interpellato. Non è invece difficile dedurre che il consiglio comunale abbia ascoltato l’Autorità portuale di Venezia, poiché la questione delle grandi navi da crociera che attraversano la città è menzionata a malapena nell’elenco dei problemi da risolvere. Sebbene proponga d’intraprendere studi sulle attività portuali e sulle navi da crociera da un punto di vista ambientale e socio-economico, il piano specifica che devono essere coerenti con gli obiettivi «anche in un’ottica di valorizzazione del porto quale patrimonio storico, economico e sociale di Venezia e della sua Laguna». So da dove proviene questa frase. Il potente presidente dell’Autorità portuale di Venezia, Paolo Costa, ha pronunciato le stesse parole nell’ottobre del 2011 durante il discorso alla riunione annuale dell’Associazione dei comitati privati internazionali per la salvaguardia di Venezia. Costava fiero del fatto che, sotto la sua gestione, il porto veneziano è diventato il più importante del Mediterraneo per l’industria delle navi da crociera. Adesso ogni giorno, tranne che in inverno, si vedono gli enormi alberghi bianchi galleggianti, anche fino a quindici ponti, sovrastare tetti e campanili antichi, trainati dai rimorchiatori verso il Palazzo Ducale per poi virare a manca nel canale della Giudecca. Quasi tutte le navi sono lunghe il triplo di un campo di football americano, con una stazza lorda di centomila tonnellate o più (il Titanic era di appena 46.000). Nel 1997 ne sono passate 206, nel 2011 sono diventate 655, e siccome entrano ed escono dallo stesso canale significa 1.310 passaggi che oscurano la vista, inquinano l’aria, scuotono le case e spostano l’acqua nei canali intorno alla Giudecca.
Dal punto di vista politico, Costa se la cava decisamente meglio del sindaco Orsoni, che è solo un avvocato, mentre lui è stato ministro dei Lavori pubblici del governo nazionale, presidente della Commissione per i trasporti e il turismo del Parlamento europeo e l’anno scorso è stato riconfermato presidente dell’Autorità portuale di Venezia fino al 2016. Costa pensa in grande e ha in mente di trasformare il porto di Marghera, sulla terraferma al limitare della laguna, in uno snodo per il trasporto delle merci nell’ambito del progetto dell’Unione europea di un corridoio che da Barcellona arriva ai Balcani e all’Ucraina passando per Venezia. Il porto di Venezia-Marghera diventerebbe il più grande del nord Italia, dove le merci provenienti dall’Adriatico arriverebbero per poi ripartire su gomma e ferrovia. Il progetto, però, dipende dai finanziamenti europei e se in confronto il porto per il traffico dei passeggeri di Venezia è piccolo, per Costa ha il vantaggio di trovarsi interamente sotto il suo controllo, quindi può intervenire in maniera incisiva. Dal 1997 l’Autorità portuale ha investito141 milioni di euro per modificare e modernizzare il porto passeggeri, mentre la società fondata quello stesso anno per gestirlo, la Venezia terminal passeggeri (Vtp), ha contribuito con 32 milioni. La Save, società che gestisce l’aeroporto veneziano, è azionista della Vtp e ha interessi nella crescita del porto perché il grosso dei passeggeri delle crociere arriva o riparte in aereo. Il consiglio comunale, d’altro canto, non ha azioni né in Vtp né nella Save e non può incidere sulla loro gestione. Non ha neppure alcuna autorità sul canale della Giudecca, dove transitano le navi, perché a differenza di tutti gli altri canali nella città questo rientra nella sfera di competenza dell’Autorità portuale. È come se Broadway non fosse di pertinenza del sindaco Bloomberg ma del Dipartimento dei trasporti federale.
Il numero degli ormeggi del porto di Venezia è stato aumentato per accogliere otto navi alla volta e, a partire da quest’anno, saranno tutte grandi navi perché i traghetti per la Grecia, di stazzainferiore, ormeggeranno sul lato oppostodella laguna, quello sulla terraferma. Talistrutture sono il frutto di un progetto da250 milioni, a riprova della bravura di Costaa reperire fondi, in questo caso aiutatodal fatto che i moli si trovano nella zona dell’industria petrolchimica morente che i governi centrale e locale vogliono vedere disinquinata e riconvertita in altre attività. Dove si costruisce, si sa,scorrono soldi, si creano posti di lavoro, siconquistano voti. Il potere è lì, non nellemani dell’indigente consiglio comunale edel sindaco.
Costa nega che il transito delle navi comprometta gli edifici o la qualità dell’aria, eppure chi lo contesta sostiene che non è stato effettuato nessuno studio indipendente. Quel che è certo, però, è che i 200.000 turisti delle crociere che sono arrivati a Venezia nel 1990 sono diventati 337.000 nel 2000, un milione nel 2007 e 1,8 milioni nel 2011. Silvio Testa, portavoce del combattivo comitato No Grandi Navi (gli attivisti hanno disseminato lunghi striscioni nel canale della Giudecca per informare i passeggeri affacciati ai parapetti di quanto siano stufi), mi ha detto che in un solo giorno del luglio 2011 in porto hanno attraccato sei navi da cui sono sbarcati 35.000 turisti tutti insieme.
Dopo l’arenamento della Costa Concordia davanti all’isola del Giglio il 13 gennaio 2012, Francesco Bandarin, vicedirettore generale dell’Unesco per la cultura, hascritto una lettera al ministro dell’Ambiente dicendo che l’incidente «rafforza le preoccupazioni» sui rischi per i siti patrimonio dell’umanità, in particolare Venezia e la sua laguna. Poco dopo il governo ha emanato un decreto con cui vietava alle navi di oltre 40.000 tonnellate di percorrere il canale della Giudecca. È stato ignorato.
Malgrado il decreto e l’appello ufficiale di un alto esponente dell’Unesco, malgrado il fatto che il consiglio comunale stesse redigendo il piano di gestione per l’Unesco, malgrado gli autori avessero la responsabilità di un sito patrimonio dell’Umanità, il piano non mostra il coraggio sufficiente per fare la minima obiezione agli interessi dell’Autorità Portuale. Ho chiesto a Giorgio de Vettor, uno dei coordinatori del piano, perché le navi da crociera non siano menzionate e l’unica cosa che mi ha sorpreso della sua risposta, «Capirà di certo il motivo», è stato il candore.
Cosa succederà, quindi, alle navi da crociera? Non c’è dubbio che il porto svolga un ruolo sempre più importante nell’economia cittadina. Secondo Costa dà lavoro a 1.600 persone nel settore dei servizi alle navi e ai passeggeri, 2.600 in forniture, manutenzione, riparazioni, vendita di bunker e così via e 1.270 per le spese dei turisti a Venezia (almeno 363 milioni l’anno) prima e dopo la crociera, con un terzo dei passeggeri che sbarca e s’imbarca da lì.
Sono fattori importanti in una città in cui iposti di lavoro al di fuori del turismo sono sempre meno. Eppure non esistono notizie sul contributo diretto del porto ai costi di gestione della città né su chi trae beneficio dai profitti. Come spesso accade a Venezia, le informazioni mancano o sono negate, concesse controvoglia oppure usate come propaganda.
Dopo aver investito così tanto, l’ultima cosa che Costa vuole è che le navi da crociera attracchino altrove, eppure lui stesso ammette che «suscitano in quasi tutti paura e preoccupazione», quindi propone un modo per ridurre il numero di transiti in città tramite il dragaggio di un canale poco profondo della laguna che si chiama Canale Contorto di Sant’Angelo affinché le navi possano attraversare il canale della Giudecca e uscire da questa nuova rotta (la soluzione che preferisce) oppure evitare del tutto il centro ed entrare e uscire dal Canale Contorto. Da lì, però, si vedono gli stabilimenti petrolchimici, quindi i turisti che si aspettavano di ammirare il Palazzo Ducale e piazza San Marco potrebbero sentirsi delusi e questo potrebbe avere ricadute negative sugli affari. Ma essendo oltremodo probabile che considerazioni ecologiche impediranno il dragaggio del Canale Contorto, Costa non sarà troppo preoccupato.
Un altro politico locale ha proposto un molo nuovo e relativamente economico in grado di accogliere fino a otto navi, da costruire all’interno dell’enorme frangiflutti all’ingresso del Lido: ipasseggeri sarebbero portati in città a bordodi catamarani che non perturberebberole acque. Ma questo progetto, del costo diduecento milioni, non sarà di certo realizzatoa breve perché l’Italia è al verde. Lenavi da crociera, quindi, continueranno adattraversare Venezia.

Troppi turisti

Si arriva così alla questione del turismo. Secondo il piano di gestione, visto il numero documentato di persone che pernottano a Venezia e dintorni, ci sono 6,3 milioni di visitatori l’anno che, moltiplicati per il numero medio dei giorni di sosta, fanno 23 milioni di presenze. Quello che il piano non dice è che molti più turisti si trattengono un solo giorno e di solito in gruppi numerosi. Malgrado le informazioni incomplete e la grave confusione sulla quantità e la natura del turismo, i tagli finanziari hanno costretto il consiglio comunale a chiudere il suo ente di ricerca Coses.
Come i turisti che visitano il Louvre per la prima volta e vanno dritti alla Gioconda, così la maggior parte dei turisti pendolari punta subito a piazza San Marco. Quello che veniva chiamato il «salotto d’Europa» ora somiglia all’atrio affollato di una stazione ferroviaria, con centinaia di persone che gironzolano, si riposano sugli zaini e fanno picnic. Un’interminabile coda ostruisce la chiesa di San Marco, restia ad adottare un sistema di programmazione delle visite, e cartelloni pubblicitari grandi quanto campi da tennis profanano le facciate. Le orchestrine suonano tutt’ora fuori dai caffè Quadri e Florian. Ma è questo che la gente si aspetta da Venezia?
Fra le tantissime cose che si potrebbero citare sugli abusi del settore turistico a Veneziane spiccano tre in particolare. In primo luogo, senza un controllo del turismo non si potrà realizzare uno dei principali obiettivi del piano di gestione, ossia incoraggiare i veneziani a restare a Venezia e fare in modo che prenda piede una maggiore varietà di attività economiche. In secondo luogo, per poter gestire il turismo, qualcuno piuttosto in alto deve ammettere pubblicamente che presto il numero dei turisti dovrà essere limitato: bisognerà prenotare in anticipo e se quel giorno Venezia è piena si dovrà rinviare la visita. In terzo luogo, il turismo non contribuisce abbastanza alla manutenzione della città.
Il piano di gestione non solo non ammette tutto questo, ma non offre neppure proiezioni future dei numeri né istituisce un sistema di monitoraggio dei turisti di passaggio. L’Organizzazionemondiale del turismo delle Nazioniunite prevede che il turismo globale, attualmentedi un miliardo di persone, raggiungerà1,6 miliardi entro il 2020 e chel’Europa sarà la destinazione più gettonata.Vale la pena notare che in base ai dati ufficiali,nel 2012 i turisti cinesi sono aumentatidel 16,3% rispetto al 2011: dobbiamocapire che stanno arrivando i cittadini diBrasile, Russia, India e Cina e non ci vorràmolto prima che nelle calli la situazionediventi insostenibile, o addirittura pericolosa.
Oltre a evitare la questione delle navi da crociera, il piano di gestione evita anche questo problema cruciale. A riguardoè stata avanzata la timida propostad’introdurre un sistema di controllodell’ingresso dei visitatori, ma ciò che ilpiano dovrebbe esplicitare con forza echiarezza è che i controlli sono inevitabilie bisogna pensare a come applicarli senzaisolare la città dalla sua vita quotidiana. Ilpiano parla invece di «arginare e regolamentare» i flussi dirottandoli verso altre zone diVenezia, spingendoli a visitare la laguna ela campagna circostante e a praticare «sportecologici». È pura fantasia: i milioni di personeche arrivano in città per la prima voltanon vogliono andare in canoa nella laguna,ma giustamente desiderano visitare i luoghifamosi.
Limitare i flussi significherebbe anche introdurre biglietti d’ingresso e in questo modo i turisti potrebbero contribuire direttamente alla manutenzione della città, assai costosa e destinata a esserlo sempre di più. Conun’opportuna presentazione, non sarebbeun’impresa ardua. Se i 6,4 milioni di visitatoriaccertati versassero 30 euro in unfondo protetto (dopotutto visitare il MoMAdi New York costa l’equivalente di 20 euro)si arriverebbe a 192 milioni l’anno. Fra le obiezioni, la violazione del diritto alla libera circolazione sancito dalla legge e la potenziale trasformazione di Venezia in Disneyland. Le leggi, però, si possonomodificare e non saranno certo i bigliettid’ingresso a trasformare Venezia in unparco divertimenti, bensì l’attuale assenzadi gestione del turismo. Come ha detto l’economista britannico John Kay, Venezia sarebbe gestita molto meglio se a farlo fosse la Disney; purtroppo i mezzi d’informazione italiani non hanno colto la sua intenzione ironica.
Non esistono studi esaustivi sul valore dell’industria turistica per Venezia, forse perché buona parte di essa rientra nell’economia in nero. Quel che è certo è che nelle casse pubbliche non arriva abbastanza, mentre se i ricavi fossero sfruttati correttamente potrebbero contribuire in maniera alquanto significativa alle esigenze della città. Eppure non esistono neanche stime dei costi di manutenzione di Venezia per i prossimi dieci anni, figurarsi per i prossimi cinquanta o cento. Nel frattempo il consiglio comunale arranca, non sapendo di anno in anno quanto aspettarsi dai finanziamenti speciali che la città riceveva in virtù della sua eccezionalità. Nel 2002 ha avuto 592 milioni, ma nel 2003 sono stati avviati i lavori del Mose e da allora quasi tutti i finanziamenti sono dirottati lì. Nel 2005 il consiglio ha ricevuto appena 23 milioni, mentre i 40 stanziati nel 2011 sono arrivati da Roma soltanto ad aprile di quest’anno.
Il piano di gestione, però, teme di sol sollevare uno qualsiasi di questi punti per non urtare contro gli interessi dei diretti beneficiari delle masse di turisti:Costa con le sue navi da crociera, i tassisti,i proprietari delle pizzerie e quelli dellebancarelle che vendono maschere di carnevale.Se per loro l’idea di limitare il numerodei visitatori è ancora un anatema,gli albergatori, che mirano ai turisti chespendono di più, cominciano a chiedere lariduzione di quelli pendolari.

Acqua alta: non basta il Mose

L’omissione in assoluto più grave del piano, però, è la mancata considerazione dell’aumento del livello marino.Ovviamente si parla dell’acqua alta e delMose, i cui lavori dovrebbero essere ultimatinel 2016, ma l’aumento cronico dellivello del mare (un problema mondiale) ègiusto accennato in relazione all’esigenzadi approfondire le ricerche per stabilirele conseguenze dell’aumento dell’umiditàsugli edifici veneziani, e il cambiamentoclimatico può «aumentare il rischio idraulicoin tutto il territorio a causa delle prospettate intensificazionidelle piogge invernali e dell’aumentodel livello dei mari». Raffrontiamo questorisibile understatement con le parole del rapportopubblicato dall’Unesco nel 2010 daltitolo From Global to Regional: Local Sea LevelRise Scenarios, Focus on the Mediterranean Seaand the Adriatic Sea: «Non v’è dubbio cheprima o poi il livello marino raggiungeràvalori insostenibili per la laguna e la cittàvecchia. Nei prossimi decenni le barriere mobilipotranno anche scongiurare le inondazioni, maalla fine il mare raggiungerà un livello tale cheneppure gli sbarramenti riusciranno a proteggerela città dall’acqua alta. Il punto non è tantose accadrà, ma quando accadrà».
Questa la conclusione della riunione, convocata nel 2010 dall’Unesco nella sua sede veneziana, con gli scienziati dell’Istituto di scienze marine e del Cnr. Sono tutti d’accordo sul fatto che il livello del Mediterraneo seguirà quello dell’Atlantico con appena qualche mese di ritardo. Il rapporto dice: «Adesso il livello medio dell’acqua (nella laguna) ha quasi raggiunto i 30 cm sopra quello di riferimento (fissato nel 1897). Ciò indica che un aumento di 80 cm porterebbe il livello medio alla soglia critica di 110 cm (quando Venezia comincia ad allagarsi). In questo caso Venezia avrebbe l’acqua alta due volte al giorno a causa dell’oscillazione di marea (l’ampiezza della marea sizigiale è di 40 cm). Quindi due volte al giorno tutti i giorni, per non parlare delle maree molto più alte che si verificano nelle condizioni climatiche eccezionali attualmente responsabili dell’acqua alta». Il rapporto del 2007 dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico) prevedeva un aumento del livello marino mondiale dai 18 ai 60 cm circa entro il 2100, ma è assai probabile che il rapporto del 2014 innalzi considerevolmente tale stima visto il rapido scioglimento delle calotte di ghiaccio. Perché il piano di gestione sbaglia quando dice che con le barriere lo stato ha risolto il problema per tutto il secolo? Le barriere saranno efficaci in caso di eventi alluvionali gravi fino a 3m e, come dice il Consorzio Venezia Nuovache le costruisce, sono state progettate per reggere persino con un aumento del livellomarino medio di 60 cm. Tuttavia l’offuscamento in questo e altri pronunciamenti ufficiali sta nella mancata distinzione fra gli episodi di acqua alta e l’ineluttabilità dell’aumento del livello del mare. Quello che le barriere non possono fare è salvare la città dagli effetti di tale aumento (la malattia cronica) contrapposti agli allagamenti (le fasi acute) se non con la chiusura frequente e, in ultima analisi, permanente. E non si può effettuare un cambiamento drastico dell’ecologia della laguna senza prima rimuovere l’inquinamento industriale lì e nelle acque che provengono dal bacino idrografico di circa 2.600 kmq o senza dotare la città di una rete fognaria (ebbene sì, Venezia è medievale anche in questo). E affinché ciò si verifichi serve un’immensa volontà politica, una stretta collaborazione fra diversi enti governativi, una pianificazione a lungo termine a partire da subito e finanziamenti costanti, tutti elementi attualmente inesistenti.
Il rapporto dell’Unesco sull’aumento del livello marino non è neppure stato inviato a Roma: nel dicembre del 2012ho parlato con l’allora sottosegretario delministero per i Beni e le attività culturaliRoberto Cecchi, che ha negato di avernemai sentito parlare. Quando ho chiesto aGiorgio de Vettor del consiglio comunale diVenezia di spiegarmi perché l’aumento dellivello marino non sia discusso nel piano,lui ha eluso la domanda: «È un problema cheva affrontato in un modo diverso, prendendo inconsiderazione tutti i fattori e gli aspetti del caso». Alla base di tutto questo c’è il timore di riaccendere il dibattito attorno al Mose, i cui lavori sono partiti dopo un ritardo di quasi vent’anni a causa dell’opposizione appassionata, e fondamentalmente erronea, di comunisti e verdi per motivi ambientali e politici.A Venezia persiste una certa diffidenzaverso le barriere (danneggiano la laguna,funzioneranno davvero, costano troppo?)accentuata dall’atteggiamento difensivo edalla mancanza di trasparenza del ConsorzioVenezia Nuova, il gruppo d’industrieitaliane che le costruisce e si astiene dalpubblicare resoconti dettagliati o rapportidi avanzamento scientifico. A livello politico, vale inoltre la pena notare che il Mose è un progetto enorme, del valore di 5,5 miliardi di euro secondo la stima del 2010, che esige molto rispetto (come Costa con il suo porto).
Nel frattempo la città viene divorata dall’umidità. Adesso ogni centimetro di aumento del livello marino conta, perché l’acqua ha superato le basi di pietra impermeabile di moltissimi edifici e viene assorbita dai mattoni porosi, sgretolandoli e portandosi via la malta. L’umidità ha raggiunto perfino i secondi piani e sta arrugginendo i tiranti di ferro che tengono insieme i palazzi. Nel nartece della basilica di San Marco è all’altezza di circa 6 m, deteriorando le tessere dei mosaici vecchi di mille anni, capolavori dell’arte italo-bizantina. È una situazione che non ha precedenti nella storia della città ed è destinata ad aggravarsi rapidamente con l’innalzamento dell’acqua.
Il consiglio comunale conclude il piano di gestione dicendo che parteciperà al coordinamento di tutti gli enti che hanno un ruolo o un interesse nell’amministrazione di Venezia e della sua laguna (cfr. box). Perlomeno riconosce che è questa l’essenza del problema: ci sono fin troppe organizzazioni, alcune statali, altre locali, alcune di sinistra, altre di destra, e tutte con priorità conflittuali. Ciò che serve disperatamente è un ente superiore con un reale potere. Ma questo piano di gestione, con la sua analisi poco convincente dei problemi della città, l’abilità di ignorare la realtà e l’evidente servilismo nei confronti dei gruppi d’interesse, dimostra che il sindaco Orsoni e il suo consiglio non potranno mai essere quell’ente.
Purtroppo resta aperta la questione di chi salverà «la fiabesca città del cuore», come la definì Byron, e il tempo sta scorrendo via.

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Last modified: 18 Luglio 2015