A sessantanni da quel famoso 1952, anno in cui a Londra morirono oltre 3.000 persone a causa dellinquinamento atmosferico appare ancora, culturalmente non solo politicamente, difficile ragionare sul rischio. Senza rischio non si realizzano imprese sportive, il rischio è lanima dellavventura, senza rischio sarebbe persino difficile concepire la ricerca scientifica. Ma il rischio riguarda anche la perdita di vite, la sicurezza personale, i tesori artistici, soprattutto gli affetti o la salute. E il rischio può preludere alla catastrofe (naturale, ambientale, epidemiologica), nasconde nei suoi recessi la paura, il dolore, spesso la morte. Ma ancora di più il rischio evoca la probabilità. Le patologie (del corpo, dellambiente, di unopera darte) sono multifattoriali, hanno un legame probabilistico con i fattori di rischio, spesso un lungo processo di latenza. Così le cure (lo ricorda Michel Foucault in un piccolo libro) non solo richiedono tempo, ma la loro efficacia non nasce dal risolvere un problema ma dalla possibilità, ancora una volta, di cambiare cultura e concezione del valore del tempo: passare alla cultura della prevenzione implica infatti unazione a più livelli: educativa, fiscale e finanziaria, coercitiva, che presuppone unidea di futuro forse meno lineare di quanto siamo stati abituati a credere. Ragionare sul rischio significa inoltre ragionare su modelli etici tuttaltro che convergenti: tra un modello liberale che, limitando la coercizione, punta tutto sullinformazione, e un modello utilitarista che enfatizza lobbligatorietà se ne situano molti altri.
Il rischio di cui parla questa inchiesta è quello idrogeologico. Lacqua (simbolo della vita per quasi tutte le religioni) può diventare causa di catastrofi naturali e sociali, di perdite di vite, risorse, testimonianze delluomo e bellezze naturali. In quasi tutti gli articoli il modello etico che prevale è quello utilitaristico: la norma e la coercizione ma anche il risparmio (di vite e risorse) e la possibile funzione anticiclica del «mettere in sicurezza» un territorio. Vorrei sottolineare (lo fa essenzialmente Julie Iovine) che il rischio e la prevenzione mettono in campo anche altri modelli etici: e sfidano il nemico più insidioso, quello che alimenta le ideologie sociali più conservative e gli atteggiamenti personali più immobilisti, la probabilità. Modelli di etica della responsabilità individuale e collettiva in cui, ad esempio, leducazione e la conoscenza sono basilari, non solo linformazione: arriva luragano Sandy linformazione ai cittadini rimane fondamentale ma previene gli effetti, non ne attenua neanche le cause. Davvero scegliere tra le paratie e le lagune per mitigare il rapporto tra natura e uomo è unimmagine affascinante. Perché le lagune, lo insegnava il Magistrato delle acque veneziano, sono prodotto umano, costruito nel tempo, mantenuto, si sarebbe tentati di dire bisognoso di coccole. La paratia che salva Manhattan è lespressione di un altro modello etico, dove con la paura non si convive e ancor meno con la probabilità: la si rimuove e si tiene lontana la causa. Ma sono espressione anche di due modelli culturali. Non perché il primo sia ambientalista e laltro no: come già detto i sistemi complessi (come le lagune, ma è solo un pretesto) sono ciò che di più artificiale possa esistere, richiedono conoscenze estremamente aggiornate e spesso oggi ancora non comunicanti (limplicita metafora appare quasi provocatoria). A dividerli è il modo culturale e poi economico di affrontare il rischio e la probabilità. Un solo esempio: gli interventi che mirano a prevenire sono difficilmente visibili, non consentono retoriche (politiche o individuali), si costruiscono a piccoli passi e non folgorano carriere, convivono con la paura. Parafrasando Jacques Lacan e il suo seminario Dun Autre à lAutre, la paratia è fobica: sostituisce una possibilità che suscita angoscia con un significante che dovrebbe
far paura al rischio. Le lagune (per continuare la parafrasi) svolgono un lavoro non solo pratico: obbligano a costruire un accordo tra le conoscenze e le azioni, costruiscono un tempo non evémentielle, paradossalmente danno alla paura un suo oggetto e ne svuotano la carica di angoscia.
La probabilità e il rischio dovrebbero costituire la base di unetica non solo utilitaristica: dovrebbero favorire leducazione, la prevenzione, la conoscenza non confinata unicamente a risolvere un problema, non essere solo occasioni di nuove utilità. I disastri, le morti, le perdite (di vite e valori) di cui larticolo su Messina ci restituisce un quadro doloroso, non richiedono solo interventi sostitutivi ma un cambio radicale di cultura politica e di modelli etici. Continueremo a rincorrere il cambiamento (climatico, tecnologico, sociale) e le possibili soluzioni che, forse per conviverci (i cambiamenti non si combattono, è sufficiente leggere il librino di Freud sul Disagio della civiltà), richiedono dintrecciare tecnologia (ovviamente dialogica), urbanistica, economia, epidemiologia ma anche filosofia (la definizione e linterpretazione del rischio in primis), antropologia ed etica, come si è visto. Senza ricercare tirannie di valori (ovviamente non lo deve essere neanche la laguna!). Ed educando alla probabilità che, per convivere con il rischio, si richiede non solo maggiore coraggio ma anche una cultura estremamente più diffusa, non solo più raffinata.
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