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Written by: Città e Territorio

Il tramonto dell’archistar

Nel 1665, Gian Lorenzo Bernini andò a Parigi perché Luigi XIV voleva che fosse lui, il massimo architetto romano e quindi d’Europa, a costruirgli il nuovo palazzo reale, il Louvre. Fu accolto come un principe, ma forse i tempi non erano maturi: il suo progetto parve troppo italiano e fu rifiutato. In tempi più recenti, sono molte le stelle che hanno brillato per una sola stagione. Trent’anni fa il firmamento italiano era dominato da personalità di rango internazionale che, per la maggior parte, sono ancora in piena attività. Ma quanti di loro sono stati cooptati nel circuito delle archistar? Tranne Renzo Piano, che è l’unico Pritzker italiano vivente (l’altro premiato fu Aldo Rossi) e Massimiliano Fuksas, pochi possono competere con continuità sul livello dell’eccellenza mondiale, e sia detto senza nulla togliere a molti bravissimi architetti italiani in grado di vincere concorsi e di costruire edifici di primaria importanza in tutto il mondo. Nel 2003 Gabriella Lo Ricco e Silvia Micheli, con Lo spettacolo dell’architettura: profilo dell’archistar (Bruno Mondadori), definivano l’architetto di successo come un abile comunicatore che unisce architettura spettacolare e divulgazione della propria immagine. Bersaglio facile e immediatamente centrato, ma non affondato, dal pamphlet di Franco La Cecla, Contro l’architettura (Bollati Boringhieri, 2008), dove l’unico gigante buono è Renzo Piano mentre gli altri sono tutti brutti e cattivi.
Le belle interviste di Enrico Arosio, Piccoli incontri con grandi architetti (Skira, 2012), hanno toni più sfumati. Il giornalista de «L’Espresso» è un ammiratore, molto informato e molto attento, e di fronte al suo taccuino le star, di nuovo Renzo Piano su tutti, diventano amabili conversatori, consapevoli e beneducati, misurati e di buon umore. Mira invece alla sostanza urbana Starchitecture. Scene, attori e spettacoli nelle città contemporanee (Allemandi, 2011), che esamina gli effetti dello star system in termini di marketing. Davide Ponzini, ricercatore del Politecnico di Milano, ricostruisce i contorni di molte importanti operazioni firmate da grandi architetti e ne verifica, testi alla mano, la coerenza sul piano economico e comunicazionale. Le fotografie di Michele Nastasi, il corrispondente visivo del saggio di Ponzini, rappresentano questi totem dell’iconografia urbana come monumenti nevrotici, bloccati nell’empasse della loro doppia appartenenza: alla realtà fisica locale e a una realtà relazionale più ampia, spesso di scala globale. Mi sembra che, per entrambi gli autori, questi edifici siano quindi dei diversi, degli alieni che porterebbero a processi di trasformazione urbana in qualche modo drogati dall’effetto manipolatorio e straniante dell’archistar, agente paranoide del globalismo dal pensiero unico, del tardo capitalismo e delle sue tecniche di persuasione di massa.
Qual è l’alternativa? Come si può affrontare l’architettura senza cadere nella trappola dello star system? Sara Marini, con l’Architettura parassita (Quodlibet, 2008) e poi con Recycle (Electa, 2012, Cfr. «Il Giornale dell’Architettura» n. 101), il catalogo della mostra curata da Pippo Ciorra per il Maxxi, ha mostrato l’importanza della contingenza, fattore scatenante della creatività progettuale nelle mature metropoli europee.
Una via d’uscita può essere la riduzione dell’archistar in supereroe, come Kenzo Tange, Arata Isozaki e il dandy Kisho Kurokawa in Project Japan. Metabolism Talks (Taschen, 2011 Cfr. «Il Giornale dell’Architettura» n. 103). I curatori del libro, Rem Koolhaas e Hans Ulrich Obrist, si chiedono: «Perché indagare oggi su un’avanguardia giapponese che emerse cinquant’anni fa e scomparve, ventincinque anni fa, nel falò del neoliberismo?» evidentemente la risposta è nella vitalità delle idee e delle utopie, e anche degli errori, che distinguono la vera sperimentazione dalle semplificazioni market oriented. E che la nutrono, anche, perché i due campi sono contigui e si alimentano a vicenda in un circuito dove cultura e mercato, ricerca e professione, sono entrambe necessarie. In questa terra di mezzo si muove Yes is more. Un archifumetto sull’evoluzione dell’architettura (Taschen, 2011, cfr. «Il Giornale dell’Architettura» n. 98), dove Bjarke Ingles (dello studio BIG), oscilla con ironia tra cultura architettonica e comunicazione pop.
Come aveva già capito Kazuyo Sejima, con la sua Biennale del 2010, il vento sta cambiando: Un’ulteriore conferma giunge dal Pritzker 2012, attribuito a Wang Shu, e se ne sono accorti anche a Hollywood, come si vede in The Descendants, il bel film hawaiiano di Alexander Payne schierato contro i miti del modernismo facile e, soprattutto, contro la speculazione edilizia. Michael Meredith, con il suo studio MOS, che sarà forse un’archistar della prossima generazione, scrive considerazioni interessanti che legano la questione ideologica alle nuove tecnologie e alla natura essenzialmente parametrica dell’architettura di domani. In From Control to Design (Actar, 2008), osserva che «l’architettura è diventata così depoliticizzata e così neutra che ormai non è che una progressione di diverse ideologie tribali. Il nostro ufficio non è una persona e non esiste un “noi”, ma è una piccola moltitudine di individui e di ideologie. Non c’è un dentro e un fuori, non ci siamo “noi” e “loro”. Niente è escluso e ogni cosa è assunta come un parametro».
Fine dello star system, in nome di un nuovo patto tra architettura, informatica e società digitale

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Last modified: 8 Luglio 2015