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Luca GibelloWritten by: Progetti

Uno straniante cofano giallo omaggia il Drake

modena. Con tanto di prese d’aria (e d’impercettibile luce diffusa), ora il cofano respira di vita propria. Ed è merito dei suoi artefici se la realizzazione non ha tradito l’idea di progetto originaria, che era senz’altro la più pregnante a livello simbolico. Sì, perché la storia è abbastanza travagliata. Nel 2004 gli inglesi Future Systems si aggiudicano il concorso a inviti bandito dalla neocostituita Fondazione casa natale di Enzo Ferrari (gli altri erano Cibic, Confino, Cucinella, Iosa Ghini, Klotz, Sauerbruch&Hutton, Zucchi). Tuttavia, in seguito i due soci dello studio Jan Kaplick? e Amanda Levete si separano nella vita coniugale, e poi anche in quella professionale: all’architetto praghese restano il nome del sodalizio e pochi progetti (tra cui quello di Modena), a lei i restanti e la sede londinese.
Infine, nel 2009 Kaplick? scompare all’età di 71 anni ma il suo magistero viene portato avanti da Andrea Morgante, classe 1972, architetto di origine modenese formatosi a Milano, che dal 2001 bussa alla porta di Kaplick? chiedendo di essere preso a bottega. Con intelligenza, Morgante (che dal 2009 ha fondato Shiro Studio) ha saputo fedelmente interpretare il progetto, coadiuvato da una delle principali engineering nostrane, Politecnica, che proprio a Modena ha la sua sede.
Il cantiere ci parla di una tecnologia mutuata da altri settori (quello nautico, soprattutto), esibita e al contempo celata, declinata secondo un altissimo mestiere artigianale: un bel paradosso per un edificio che vuol apparire come un oggetto d’industrial design. Al di là della geotermia e della domotica, vale per la vetrata autoportante, inclinata di 12,5° e curvilinea, retta da cavi in acciaio pre-tensionati (40 t) agganciati in alto a una grande trave-tubo a sezione cava, saldata in opera pezzo a pezzo da due operai. Vale per la copertura in doghe d’alluminio estruso, piegate secondo curvature (anche doppie) tutte diverse grazie a dime realizzate con processi Cad/Cam su brevetto austriaco (dove non c’è il mare ma una ditta che eccelle nella costruzione sartoriale di barche). Il guscio esterno, poi, risulta sollevato rispetto alla struttura reticolare metallica: poggia infatti su una maglia puntiforme di aste creando una camera d’aria delimitata da membrane all’intradosso. Le travi reticolari, poco arcuate e dunque molto spingenti, affondano l’imposta nel basamento laterale controterra, che presto dovrebbe ricoprirsi di vegetazione.
L’impatto urbano del grande mantello giallo è straniante e senza mediazioni. D’altronde, l’intorno, a meno di un’abbandonata torre neomedievale e un po’ di edilizia minore, non eccelle di certo: a nord, le costruende case della coop San Possidonio ma, soprattutto, svettano sullo sfondo sud i futuri casermoni residenziali delle ex acciaierie; unico comparto di trasformazione attualmente in cantiere per un capoluogo le cui altre principali aree industriali dismesse (ex fonderie e ex Mcm) languiscono in attesa di tempi migliori. In effetti, la città può comunque andar fiera dell’intervento perché, a meno del progetto di recupero culturale del complesso di Sant’Agostino firmato da Gae Aulenti (in corso), il segno dell’architettura contemporanea è totalmente latitante.
Nessuna mediazione metodologica neppure rispetto alla preesistenza. Un restauro quasi filologico per la casa natale di Enzo Ferrari (1898-1988), che ospita nell’officina posseduta dal padre Alfredo il museo dedicato al Drake, con elegante quanto espressivo allestimento anti-contestualista, 100% by Morgante. Di fronte, la costruzione ex novo indipendente, sebbene configurata in pianta come un ideale abbraccio al fiero fabbricato in laterizi: un abbraccio non soffocante ma valorizzato dal proporzionato spazio aperto interposto e dalle omogenee rispettive altezze di colmo. Dalla galleria la preesistenza è sempre visibile attraverso la generosa vetrata, schermata dai brise soleil in estrusioni d’alluminio e conclusa ai lati da «bolidistiche» volute rivestite in inox con begli effetti specchianti. Un ossimoro quasi perfetto.
Gli interni della galleria, total white e open space che s’incava docile fino a quota -4 m, continuano il gioco di forme fluide che rimanda alla science fiction aerospaziale anni settanta/ottanta. Vi sono ospitate, a rotazione, fino a una ventina d’auto d’epoca: non più, come mostravano i disegni di concorso, bolidi volanti variamente inclinati; i prestatori privati hanno imposto più ordinarie piattaforme di poco sollevate da terra su cui appoggiare i gioielli, assicurati per 50 milioni. L’effetto autosalone è solo in parte scongiurato, sebbene tutto sia disegnato: dai nodi d’acciaio a microfusione che ammorsano i moduli vetrati, alle maniglie, fino ai lavabi dei servizi.
Infine, un’ultima considerazione sulla cifra stilistica di Future Systems, filo rosso che corre dalla tribuna dello stadio del cricket a Londra (1999) ai magazzini Selfridges di Birmingham (2003). Pur trattandosi di architetti, le loro opere paiono grandi oggetti di design alla scala urbana: poggiati ma non ancorati al suolo, manca il pathos tettonico, la sfida alla gravità e la cura nel disegno dei dettagli. Avvertiamo una sorta di disagio: lo stesso che ci coglie di fronte agli edifici di Philippe Starck, simili a tostapane, o di fronte a quelli di Alessandro Mendini, che paiono arredi.

Autore

  • Luca Gibello

    Nato a Biella (1970), nel 1996 si laurea presso il Politecnico di Torino, dove nel 2001 consegue il dottorato di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica. Ha svolto attività di ricerca sui temi della trasformazione delle aree industriali dismesse in Italia. Presso il Politecnico di Torino e l'Università di Trento ha tenuto corsi di Storia dell’architettura contemporanea e di Storia della critica e della letteratura architettonica. Collabora a “Il Giornale dell’Architettura” dalla sua fondazione nel 2002; dal 2004 ne è caporedattore e dal 2015 al 2024 è direttore. Oltre a saggi critici e storici, ha pubblicato libri e ha seguito il coordinamento scientifico-redazionale del "Dizionario dell’architettura del XX secolo" per l'Istituto dell’Enciclopedia Italiana (2003). Con "Cantieri d'alta quota. Breve storia della costruzione dei rifugi sulle Alpi" (2011, tradotto in francese e tedesco a cura del Club Alpino Svizzero nel 2014), primo studio sistematico sul tema, unisce l'interesse per la storia dell'architettura con la passione da sempre coltivata verso l’alpinismo (ha salito tutte le 82 vette delle Alpi sopra i 4000 metri). Nel 2012 ha fondato e da allora presiede l'associazione culturale Cantieri d'alta quota

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Last modified: 9 Luglio 2015