Lassegnazione del Pritzker Prize 2012 a Wang Shu (1963), primo cinese nella storia del premio (Ieoh Ming Pei lo vinse nel 1983, ma naturalizzato americano), ha portato allattenzione internazionale non solo la sua opera, ma un ampio movimento di progettisti: cresciuto per numero e qualità a partire dalla prima mostra collettiva dedicata ad architetti cinesi (9 tra cui Wang Shu), inaugurata a Berlino nel 2001, è restato in secondo piano rispetto a fenomeni per cui larchitettura e il planning hanno trovato posto, come non mai, nelle cronache generali (la rapida urbanizzazione delle città, gli sfollamenti e le demolizioni). Oggi ci si trova a fare i conti con una condizione professionale articolata e matura, senza che la critica occidentale, a meno che per pochi progettisti affermati, abbia esercitato lamato ruolo di talent scouting e legittimazione.
La mostra «From Research to design. Selected architects from Tongji University of Shanghai», nata in collaborazione con lUniversità di Pavia e aperta alla Triennale di Milano fino al 23 settembre, è stata utile perché basata non su individualità (lo stesso Wang Shu, pur esibendo tre lavori, tendeva a scomparire nellampio gruppo) ma su un ambiente, un gruppo di 27 progettisti collegato a una delle più importanti scuole di architettura in Cina. Colpiscono almeno due cose. La prima è la selezione a maglie larghe, che porta sotto lala della Tongji University non solo figure strettamente legate (Wang Shu, ad esempio, vi ha svolto il dottorato) ma anche altre che lhanno solo sfiorata. Zheng Shiling, professore alla Tongji e noto studioso, spiega al riguardo (nel catalogo della mostra curato da Ioanni Delsante) che «lo spirito accademico della scuola di Tongji prevede di includere idee di diverse scuole e di imparare dallesperienza degli altri». La curatela di Li Xiangning trasmette molto bene questa idea, ma daltro canto rappresenta una prova di forza per nulla celata: estendere il peso e linfluenza della Tongji, in unoccasione di visibilità internazionale, nellattuale processo di affermazione dellarchitettura cinese. Il secondo aspetto è il rapporto con la memoria (in alcuni casi quasi ossessivo) delle opere esposte. Tutte ambiscono a un posizionamento assolutamente contemporaneo ma, allo stesso tempo, poche rinunciano a un loro statement rispetto alle tradizioni locali: includendo riferimenti (a volte velati), interpretando tipologie (spesso sovvertendole), superando posizioni consolidate (ma esplicitandole). Da un lato si intuisce il bisogno di rispondere a unaspettativa generalizzata, quale lemergere di posizioni progettuali che accolgano come sfida, invece di subirla, «lesigenza di quantità, velocità, efficienza, effimerità» propria della costruzione cinese (dal saggio di Li Xiangning nel medesimo catalogo). Dallaltro, prevale però la voglia di emanciparsi dal ruolo che si attribuisce allarchitettura in Cina, quando la si collega damblée alla tabula rasa e alla perdita di ogni memoria. Questa dualità appare ancora ambigua e tutta da risolvere, rappresentando un elemento di grande fascino. Linterpretazione che ne ha saputo dare Wang Shu è probabilmente ciò che più ha convinto la giuria del Pritzker. Il suo libro Imagining the house, presentato alla vernice della Biennale di Venezia, è una raccolta di disegni a mano e descrive il processo progettuale dei suoi lavori più importanti, realizzati e in corso. Wang Shu racconta gli obiettivi del suo lavoro, tra cui «superare il conflitto superficiale tra modernità e tradizione locale, per ricongiungersi con il passato grazie alle memorie che riemergono nella vita di tutti i giorni».
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