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Cristina DonatiWritten by: Interviste

Deyan Sudjic: perché Londra assomiglierà sempre di più a Shanghai

Deyan Sudjic: perché Londra assomiglierà sempre di più a Shanghai

Deyan Sudjic riflette sulla metamorfosi della cultura architettonica contemporanea e sull’inevitabile rinnovamento degli strumenti per la sua comprensione e comunicazione. In una fase fortemente evolutiva, l’architettura non ha più bisogno di concettualizzare né di cristallizzare nuove regole, bensì di aprirsi a ricerca e innovazione. In attesa di una nuova sede, il Design Museum da lui diretto ha in programma una monografica su Louis Kahn e una mostra sull’avanguardia che coinvolgerà 14 studi emergenti d’architettura e design. Uno sguardo al passato e uno al futuro per riflettere e guardare avanti.

James Stirling, nel 1954, annotò in un taccuino: «Mi sveglio spesso al mattino pensando come possa essere un Inglese e un architetto al tempo stesso, specialmente un architetto moderno». Quali sono i motivi che, secondo lei, rendono l’Inghilterra tradizionalmente ostile alla modernità?
L’Inghilterra ha inventato la modernità con la Rivoluzione industriale, ma è stata poi terrorizzata dalle sue conseguenze. Ruskin e Morris testimoniano l’inizio di un percorso culturale che negli anni ottanta e novanta sfocia nei violenti attacchi del Principe Carlo, che Stirling soffrì in prima persona.
Penso che si riferisse in particolare alle difficoltà dell’avanguardia che, negli anni cinquanta, era ancora poco compresa nel contesto storico e critico nazionale. Un episodio emblematico degli anni prima della guerra è quello dell’allora direttore della Tate Gallery, che rifiutò di classificare i quadri di Picasso come opere d’arte. Credo però che oggi l’Inghilterra abbia superato questi pregiudizi. Basta guardare Canary Wharf, la City e le nuove architet­-
ture oramai pervase da un cinismo di matrice asiatica che porterà Londra ad assomigliare sempre più a Shanghai!
Nel dibattito sulla teoria dell’architettura, Patrik Schumacher ha scritto quanto sia «Importante avere una teoria comprensiva e unificante […] che non si è più affrontata da Le Corbusier e forse dall’opera di Christian Norberg-Schulz». Lei ritiene che sia in effetti necessaria o che il pluralismo contemporaneo necessiti di altri approcci per comprendere l’architettura?
Schumacher, che stimo molto, cerca di spiegare la sua architettura al di là del «parametrismo», o meglio, al di là di quella che può essere percepita come un’estetica personale. Più in generale, penso che oggi sia più importante la ricerca che l’affermazione di un pensiero unificante. Viviamo in una fase evolutiva e non di ratifica di una situazione consolidata. Oggi come ieri è importante che esistano un quadro culturale e una razionalità universale dell’architettura che non siano solo quelle della logica individuale dell’architetto. La sostenibilità, ad esempio, è oggi un parametro olistico che genera estetiche che definiamo «belle». Condividere un’etica diventa quindi molto importante. È finito il tempo delle regole e degli stilismi; è prioritario che l’architettura esca dal suo «ghetto» e inizi a relazionarsi con altre discipline. In Inghilterra, dove siamo forse più pragmatici che in Italia, riteniamo che la critica non possa essere l’esaltazione di un linguaggio autoreferenziale, ma debba ricercare le ragion d’essere all’interno di contesti più oggettivi e multidisciplinari.

«Next», la Biennale che lei ha diretto nel 2002, ha esplorato il futuro dell’architettura negli anni che lei ha definito dell’«esuberanza irrazionale». Quanto si è avverato e quanto è cambiato in questi dieci anni?
Il 2002 sembra oggi lontanissimo. «Next» ha previsto il ruolo della Cina nello scenario internazionale, e in questi anni abbiamo assistito al consolidarsi dello smisurato potere cinese che ha trasformato i rapporti tra Asia, America ed Europa post-comunista. Le dinamiche finanziarie sono quindi molto diverse. Nel 2002 si viveva ancora in una bolla immobiliare che consentiva a chiunque di costruire ciò che voleva. Non a caso, Fuksas intitolò la sua Biennale del 2000 «Meno estetica, più etica». Anche i riferimenti culturali sono cambiati: abbiamo chiuso il ciclo del Novecento con la sua aspirazione al monumentalismo e all’astrazione concettuale di stampo accademico, che in Italia ha generato quasi un lessico a sé. Oggi, specialmente in Inghilterra, si ricerca un approccio che favorisca un’innovazione sensibile all’emergenza del pianeta e al benessere futuro. Così, se nel 2002 la Biennale poteva avere un sapore intellettuale, oggi è più interessante gettare uno sguardo alla concretezza del costruire.

Il suo libro «New Directions in British Architecture» ha illustrato l’opera dei maestri dello strutturalismo britannico a inizio anni ottanta. Con l’avvicinarsi del passaggio generazionale, chi ritiene abbia avuto maggior successo?
Quando ho scritto quel libro ero giovane e anche Rogers, Foster e Stirling erano all’inizio delle loro carriere. Molto è cambiato per tutti, ma credo che Foster abbia scelto la strada di maggior successo, abbracciando la modernità nel modo più efficiente e pragmatico. Ha inventato un modo nuovo di fare architettura, ha cioè «professionalizzato» l’architettura e trasformato lo studio in una società di servizi, proprio come le catene internazionali che si occupano di gestione amministrativa o legale. Foster + Partners continuerà a crescere con uno spirito aziendale, ancora nuovo per l’architettura. Un’organizzazione che favorisce i giovani, che possono avere subito importanti responsabilità prima dei mitici 50 anni!

Nel suo libro «Architettura e potere» analizza il rapporto tra il principe e l’architetto o l’archistar. Ritiene però che l’utopia sociale del Movimento moderno potrà mai avere un vero protagonismo nella storia?
Non sono convinto dell’aspirazione socialista del Movimento moderno. Basti pensare all’interpretazione di Tom Wolfe nel libro From Bauhaus to Our House! Resto perplesso anche di fronte al valore del social housing alla periferia di Parigi o ai risultati di Léon Krier quando vuole farsi portavoce del gusto della gente comune. È indubbio il valore sociale che può avere l’architettura, ma non può prescindere dal fare i conti con ciò che le persone possono effettivamente permettersi. Una complessità che genera vincoli tali da rendere difficile parlare di architettura in questo contesto.

A Londra la scorsa estate si è inaugurato One Hyde Park firmato Richard Rogers, e quest’anno lo Shard di Rpbw. Due architetture per super ricchi realizzate grazie a partenariati con l’Emiro del Qatar. Come valuta i risultati?
Sono entrambi lussuosi complessi speculativi costruiti per produrre reddito, ma che credo stiano fallendo la loro missione perché molto è ancora invenduto. Due opere che non rispecchiano le personalità dei loro creatori. L’aggressività con cui Shard s’impone nello skyline di Londra non riflette il garbo di un gentleman come Renzo Piano. La dichiarata posizione di sinistra di Rogers non è conciliabile con la paternità degli appartamenti più costosi di tutta Londra. Da un punto di vista estetico, preferisco l’esuberanza di Neo Bankside dietro la Tate Modern. Al di là di tutto, sono il simbolo della prestigiosa posizione di Londra nel mondo globalizzato della finanza.

Viviamo nell’«Era dell’Euro» e anche l’architettura sta muovendosi verso una sua «europeizzazione». Come valuta la posizione dell’Italia nel contesto europeo?
Si sta sicuramente affermando una condivisione d’intenti culturali che accomuna l’Europa: un possibile esempio di architettura «europea» di qualità è il campus della Novartis a Basilea. L’Italia ha prodotto cultura architettonica innovativa fino a circa il 1975, ma ancora oggi le circostanze non consentono un avanzamento. I problemi sono la corruzione e la gerontocrazia del sistema politico e accademico. La riforma universitaria degli anni sessanta ha liberalizzato l’accesso all’istruzione e prodotto atenei affollati di studenti, dove la qualità è bassa e i risultati poco professionalizzanti e competitivi per i futuri architetti italiani. Non ci si può quindi meravigliare se gli incarichi prestigiosi vengano affidati agli stranieri.

Negli anni ottanta è stato il co-fondatore di «Blueprint» e, dal 2000 al 2004, ha diretto «Domus». Quali sono le principali differenze tra la stampa anglosassone e quella italiana?
L’approccio italiano è quello che concepisce la rivista come un palcoscenico per la promozione delle opinioni del direttore. In Inghilterra, il lettore si aspetta che il direttore sia invece un osservatore esterno che offre una visione totale sull’architettura contemporanea.

La stampa d’architettura sente la concorrenza dell’informazione on-line e di siti come blog e twitter che offrono libere piattaforme di dibattito. Che cosa pensa del web e del ruolo futuro delle riviste?
Penso sia giusto che le nuove generazioni sfidino le precedenti e trovino il loro modo di esprimersi. È stato così in architettura e nel design. Un difetto del web è però l’anonimato: chiunque può scrivere un commento senza firmarlo. Questo non genera né dibattito né dialogo, ma una sorta di «urlo» personale, a volte troppo aggressivo. La sopravvivenza delle riviste è, in effetti, sempre più difficile. La carta stampata deve riuscire a pubblicare articoli più approfonditi dell’informazione che si trova gratuitamente sul web. Probabilmente il futuro prevede una riduzione delle riviste, dove solo quelle di alta qualità continueranno a pubblicare. D’altro canto, si potranno trovare forme più economiche di stampa come l’e-book, che riduce i costi e facilita la distribuzione. Dobbiamo guardare al futuro con ottimismo.
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Autore

  • Cristina Donati

    Prima collaboratrice poi redattrice della testata online fin dagli esordi nel 2014. Prematuramente scomparsa nel 2021. Studia architettura a Firenze dove consegue un Dottorato di ricerca in storia dell’architettura. Dopo la laurea si trasferisce a Oxford dove collabora con studi professionali, si occupa di editoria e cura mostre per Istituti di cultura a Londra. Ha svolto attività didattica per la Kent State University (USA) con il corso di Theories of Architetcure. Scrive per numerose riviste internazionali e svolge attività di ricerca sull’architettura contemporanea e i suoi protagonisti. Dirige la collana editoriale «Single» sul progetto contemporaneo per la Casa Editrice Altralinea. E' autrice di saggi e monografie tra cui: «Michael Hopkins» (Skira, 2006); «L’innovazione tecnologica dalla ricerca alla realizzazione» (Electa, 2008); «RSH+P, Compact City» (Electa, 2014); «Holistic Bank Design» (Altralinea, 2015).

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Last modified: 18 Luglio 2015