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Written by: Inchieste

Premio di Architettura Città di Oderzo XIII edizione: bisogna imitare gli alberi

Quest’anno si terrà la XIII edizione del Premio di Architettura Città di Oderzo, riservato a opere realizzate nel Triveneto. Il Premio ha cadenza biennale e si conclude a novembre con un’esposizione dei lavori selezionati. Da più di un’edizione, ormai, tra le opere segnalate dalla giuria, prevalgono interventi realizzati nelle province di Trento e Bolzano. Per alcuni ciò rappresenta un problema, per altri la conferma di un luogo comune, se così si può dire, legato all’idea di una maggiore capacità d’investimento, in quelle terre, se si fa riferimento alle opere pubbliche. Il Premio, data la sua permanenza temporale e senza la presunzione di esaustività, rappresenta tuttavia una sorta di osservatorio sulla qualità degli interventi, tant’è vero che accompagna la sua attività con convegni e dibattiti volti a indagare le ragioni specifiche e di contesto dell’attività di progettazione. Certamente la pratica diffusa dei concorsi come forma di selezione dei progetti ha contribuito a scelte di qualità. Ma i concorsi che portano alla realizzazione delle opere, per non ridursi a mera forma retorica, presuppongono la determinazione della committenza, la chiarezza nell’impostazione del bando e la presenza di giurie attente e prive di pregiudizi. Questi elementi, apparentemente solo di ordine logico, descrivono un primo livello di contestualizzazione degli accadimenti. Ma non bastano le buone pratiche se non sono il frutto di forme culturali socialmente radicate e condivise. Ciò che emerge è la diffusione di un’architettura civile che tiene insieme e caratterizza sia il versante dell’intervento pubblico che, tendenzialmente, quello privato. Mario Rigoni Stern nel suo Arboreto selvatico descrive liricamente, ma con notazioni botaniche precise, la convivenza con il tempo lungo della vita degli alberi a lui cari fatta di semplicità, di cura e di uno sguardo attento, tra memorie e speranze. Sarebbe bello pensare che l’attenzione alla topografia e una certa asciuttezza formale nascessero da atteggiamenti analoghi, dove l’approdo alla semplicità rappresenti la ricerca della pertinenza e della persistenza come riferimenti di un’indagine formale priva d’inutili ridondanti retoriche. Più che opere pubbliche nel senso tradizionale del termine, si delinea un processo d’infrastrutturazione territoriale capace di riscattare le questioni funzionali dall’orizzonte esclusivamente tecnico per ricollocarle in specifiche situazioni spaziali con cui aprire dialoghi. I fattori contestuali non sono avviliti nella mera riproposizione di stilemi formali preesistenti, ma alimentano dialoghi che interrogano il senso della collocazione sul terreno dei corpi di fabbrica e dei principi relazionali che essi evocano o vogliono rendere espliciti. Ciò è reso possibile da un secondo elemento di contestualizzazione non irrilevante, dovuto alla tutela paesaggistica. Il tema meriterebbe approfondimenti ben maggiori, ma la questione di riuscire a «produrre paesaggio» attraverso le trasformazioni e farne un elemento identitario dei luoghi apre a riflessioni sul valore aggiunto territoriale e sociale che troppo spesso sono trascurate. Andando oltre la logica del mero consumo-tutela dell’esistente «naturalistico», l’innovazione agricola e il sostegno anche alle forme più tradizionali, compreso il pascolo e le modalità di contenimento e manutenzione dei boschi, definiscono un insieme che fa parte di quegli orizzonti d’infrastrutturazione territoriale fatta di cura e manutenzione o modificazione attenta cui si è accennato. Ciò può alludere alla possibilità d’individuare «statuti dei territori» come ricerca di regole comunitarie di comportamento capaci di esplorare e ricostruire gli orizzonti di senso della confusa stratificazione normativa del diritto amministrativo italiano. Così, forse, architettura e paesaggio stanno insieme nella ricerca di un bene comune che non è certo separato da una visione e uno sviluppo sociale complessivi. Ovviamente si tratta di evitare sia i rischi dell’ambiguità identitaria basata sulla chiusura e sull’esclusione, sia le derive folcloristiche legate a nostalgie d’altri tempi.

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Last modified: 11 Novembre 2020