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Ancora a proposito della Darsena di Ravenna

Ancora a proposito della Darsena di Ravenna

Il numero scorso di questo Giornale ha ospitato una nota, firmata da Ardia Marzetti, che esprime un giudizio sentenzioso sul recupero della Darsena di Ravenna. Intervengo in qualità di ex assessore comunale che nel 2003 promosse il concorso attraverso il quale venne selezionato Boeri Studio quale consulente per questo intervento. Per parlarne credo sia anzittutto necessario ricordarne brevemente il percorso. La Darsena rappresenta un’occasione per una riflessione sull’esperienza di quel laboratorio urbanistico che è stato il Comune di Ravenna fin dai primi anni settanta e che in qualche modo riflette il dibattito urbanistico nel nostro paese: il rapporto fra pubblico e privato e l’antagonismo fra piano e progetto. S’inizia a discutere della Darsena a fine anni ottanta, a seguito di una proposta di alcune imprese interessate alla valorizzazione delle loro aree, per poi passare ai Programmi complessi di metà anni novanta e arrivare a un resoconto, negativo, stilato dall’amministrazione nei primi anni duemila. La fase successiva, quella che si avvale del contributo di Boeri Studio, propone una riflessione generale sulla Darsena e chiama a confrontarsi l’intera comunità ravennate, utilizzando la tecnica urbanistica quale supporto. È un tentativo di passare «dal piano alla pianificazione», in cui, una volta definiti gli obiettivi, lo strumento urbanistico diventa la cornice per una serie di azioni di natura diversa: sociali, culturali, fiscali, economiche ecc. Le poche regole urbanistiche fissate dal masterplan costituiscono un reticolo piuttosto largo, ma fermo, all’interno del quale andare a inserire i diversi progetti. L’immagine riportata da questo giornale, in cui appaiono quelle che la lettrice chiama «ciambelle», non è altro che una delle quattro esemplificazioni di un sistema che fonda le sue regole su di un addensamento lungo il canale per la parte sud e una successione di cluster per la parte nord. Si cerca così di superare anche l’annosa contrapposizione fra piano e progetto, chiamando quest’ultimo ad arricchire il disegno del primo. Ma il vero sforzo è quello di superare una visione fatta solo d’interventi materiali, per questo è importante uscire dal terreno ristretto riservato agli addetti ai lavori e stimolare una mobilitazione popolare anche attraverso l’attivazione di usi temporanei degli spazi dismessi e sottoutilizzati del vecchio porto. È grazie alla dialettica aperta in seno alla comunità, già promossa dall’amministrazione attraverso l’attivazione di sedi idonee, che si determina un reale processo di trasformazione e innovazione della città, intendendo lo spazio come luogo di costruzione collettiva e non come area riservata agli esegeti del genius loci. Forse anche i custodi dei «valori della nostra civiltà» dovrebbero applicarsi in questo esercizio democratico.

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Last modified: 20 Aprile 2018