Un peculiare pastiche di Palazzo Barbaro, il Boston Gardner Museum costruito nel 1903 dallesperto di revival gotico e rinascimentale Willard Thomas Sears per ospitare leclettica collezione artistica della rispettata signora bostoniana Isabella Stewart Gardner, ha finalmente ottenuto il suo architetto italiano: la coppia Renzo Piano – Emanuela Baglietto che collabora da ventanni. Il 19 gennaio sinaugura il loro elegante ampliamento trasparente, rivestito in vetro e rame turchese (purtroppo ossidato in maniera così uniforme da sembrare scadente laminato di legno tinteggiato) e costato lastronomica cifra di 183 milioni di dollari. Laggiunta, che dora in poi fungerà (sfortunatamente) da unico ingresso pubblico al museo, libera (fortunatamente) il vecchio edificio da tutte le sue funzioni tranne quella originaria di ospitare la collezione permanente.
Se di recente il team di Piano si è specializzato in ampliamenti di note opere (lampliamento del suo Museo Menil, il convento davanti alla cappella di Le Corbusier a Ronchamp e il meno riuscito ampliamento del Kimbell Art Museum di Louis Kahn), lultimissima «appendice» di Rpbw ha quanto meno il discutibile merito di superare loriginale dal punto di vista architettonico. Tale controversa superiorità però, è autorizzata a insidiare un patrimonio storico, culturale e intellettuale? A prescindere da cosa oggi si pensi dellarchitettura del vecchio museo, listituzione è per i bostoniani unicona leggendaria.
Come i precedenti ampliamenti, anche questo si è ritrovato al centro di una bufera di opinioni contraddittorie relative non solo alla discutibile espansione, ma soprattutto al tradimento dei contributi apportati allopera dalla signora Gardner. Storici, architetti e curatori museali di Boston in netto disaccordo hanno tribolato oltre cinque anni per decidere se conservare o demolire (come esigeva il progetto di Rpbw) la Carriage House, costruita dalla Gardner sul sito e usata di recente per alloggiare gli artisti che lavorano presso il museo. Un altro grave motivo di contrasto ha riguardato inoltre la possibilità che lo stile modernista del nuovo edificio, basato su trasparenza ed efficienza, fosse lantitesi della dimora-museo della Gardner. Come ha scoperto il giovane studioso Robert Colby, fu il celebre storico dellarte Bernard Berenson, amico e consulente della signora, a ispirare in parte la sua idea del museo. Secondo il «Boston Globe», Colby sostiene che i documenti «chiarivano che la Carriage House, i muri e i graticci costituivano un elemento chiave dellidea che la fondatrice aveva di Fenway Court [il nome originale del Gardner Museum] come enunciazione architettonica e orticola». Dai documenti emerge che il progetto della Carriage House sispirava a unarcata del borgo pugliese di Altamura, da dove Berenson spedì unimmagine allamica. Anteponendo lintegrità professionale al carrierismo, Colby, avvisato da colleghi più anziani che rendendo pubblici i suoi risultati rischiava di compromettere la propria carriera, ha mandato una copia del suo saggio alla direttrice del museo Anne Hawley e ad alcuni membri del consiglio degli amministratori fiduciari, sperando che influenzasse la decisione loro e degli enti di Boston per la tutela del patrimonio storico. Vari curatori e dipendenti del museo si sono appellati ai mezzi dinformazione locali nellestremo tentativo di salvare lannesso condannato, chiedendo che la Carriage House fosse almeno spostata o integrata nel nuovo progetto. La disputa ha raggiunto il culmine quando la direttrice del museo, in unammissione pubblica, ha minacciato di licenziare i curatori che non avrebbero sostenuto il progetto di Rpbw. La reazione che si è scatenata sulla stampa di Boston è stata così violenta da indurre Hawley a ingaggiare addirittura il gruppo di relazioni pubbliche Weber Shandwick Worldwide per tentare di contenere i potenziali danni. Il pragmatismo commerciale ha battuto la nostalgia storica, e il sindaco Tom Menino ha firmato lautorizzazione alla demolizione. Alla vigilia dellinaugurazione lamarezza di alcuni dipendenti del museo perdura, adesso in forma anonima.
Costituito da quattro volumi distinti, verosimilmente disposti secondo uno schema palladiano, il complesso è collegato da una scalinata monumentale «trasparente» (forse la parte più riuscita dellopera) che ricorda, per proporzioni ed eleganza, quella di un palazzo rinascimentale. I pannelli di vetro circostanti e la scala, incardinati in supporti minimali (che rimandano alle ombre visivamente emozionanti degli «esoscheletri» e dei brise-soleilesterni), moltiplicano allinfinito il concetto architettonico di base che gli autori si sono sforzati di ottenere: una percussione cristallina di trasparenze riverberanti, che permettono un contatto visivo con il vecchio museo dispirazione gotica da qualunque punto lo si osservi. Questo rapporto onnipresente si limita ad accentuare le deprecabili superfici di mattoni dallaspetto artificiale (tinteggiate in rosso carminio!) usate dai progettisti allinterno, invece distituire un ulteriore legame con il museo imitandone i magnifici mattoni di un beige sfumato. La chiarezza della composizione ottenuta in un sito difficile dalla forma irregolare tra i due edifici è purtroppo turbata dalla serra (la signora Gardner laveva, ma aveva anche la Carriage House) lungo il corridoio che serve gli uffici amministrativi. Piuttosto che rafforzare la corte verde rispettandone lunicità, la serra annessa in modo eccentrico al nuovo edificio banalizza la precedente, che invece dovrebbe emulare. Per di più, le superfici inclinate di vetro dei semenzai (ricordo del muro inclinato della Carriage House?), estese per lintera altezza delledificio, sono facilmente scambiate per pannelli solari. Peggio ancora, né gli uffici né il nuovo museo si aprono davvero sulla serra. Visibile soltanto dalla strada, questa offre ai passanti un messaggio ambiguo sulla natura della struttura. È assai probabile che i tentativi per salvare la Carriage House sarebbero stati di gran lunga preferibili.
Il progetto comprende (altra impresa riuscita) uneccezionale galleria espositiva cubica alta 10 m in grado di sorprendere piacevolmente il visitatore che fino a quel momento si è spostato in spazi più costretti. Il soffitto si può anche regolare alle altezze di 7 e 3,5 m; accanto, un altro enorme cubo insonorizzato in calcestruzzo che ospita una sala per concerti esibisce un apparato acustico sofisticato ideato dallincorruttibile Yasuhisa Toyota. La disposizione dei posti a sedere che corrono lungo tutto il perimetro della scatola, su cinque livelli da ununica fila, ricordano un teatro shakespeariano. A completare il progetto assemblato con sapienza, un ristorante, un salone, spazi formativi, laboratori di restauro e due appartamenti.
Il rapporto tra lampliamento e il vecchio museo è questione più spinosa. La decisione di collocare lunico ingresso nella nuova struttura è un grave errore, destinato a condizionare lesperienza del visitatore come forse la Gardner non avrebbe tollerato. Tradisce infatti lesperienza visiva teatrale da lei voluta per lincontro con la sua creazione: il forte contrasto che tentò di rendere fra lesterno in mattoni, discreto e introverso, e lesplosione spaziale che si vive nellentrare, quando ci si ritrova allimprovviso di fronte allampia corte ricca di piante di ogni forma e colore in gara con molteplici frammenti di sculture, antiche trifore e azulejos moreschi.
ENGLISH VERSION
An idiosyncratic pastiche of the Palazzo Barbaro, the Boston Gardner Museum that Willard Thomas Sears–a specialist in Gothic and Renaissance revivals– built in 1903 to house the eclectic art collection of the Boston revered socialite Isabella Stewart Gardner, has finally received its Italian architect: the twenty-year old tandem Renzo Piano-Emanuela Baglietto. For the hefty cost of 183 million dollars, clad in glass and turquoise copper (regrettably oxidized so evenly as to look as cheap painted wood laminate), their elegant, highly transparent expansion of the Museum, opens on January 19. This addition, which from now on will serve (unfortunately) as the only public entrance to the museum, relieves (felicitously) the old building from all but its primary function as a receptacle of the Gardner’s permanent collection. If the Piano team has been recently specializing in additions to established architectural works (the addition to his own Menil museum; the convent set in front of Le Corbusier’s Ronchamp chapel; and, most tragically, the addition to Louis Kahn’s Kimbell Museum) the latest “addition” by the Piano Workshops has at least the arguable merit of being superior architecturally to the original. Yet, is this debatable superiority a license to undermine a historical, cultural and intellectual heritage? Whatever we can think today about the old museum’s architecture, this institution is an iconic object with legendary significance for the Bostonians. Like the previous additions, this latest one found itself at the center of a storm of contradictory claims regarding not only the questionable expansion, but the very betrayal of Mrs. Gardner’s design contributions. Sharply divided Boston historians, architects and museum curators labored over five years to decide whether to preserve, or demolish (as Piano’s project required) a Carriage House Gardner built on the site, and used in recent years to lodge the Museum’s artists in residence. A serious point of contention was also whether the new buildings modernist idiom of transparency and efficiency was the antithesis of Gardners palace museum. The distinguished art historian Bernard Berenson, Gardner’s friend and adviser, helped inspire her vision for the museum, as the young scholar, Robert Colby, discovered. He insisted, according to the Boston Globe, that the documents “made it certain that the Carriage House, walls and trellises constituted a key element in the founder’s vision of Fenway Court [the original name of the Gardner Museum] as an architectural and horticultural statement.” According to the documents, the Carriage House design was based on the image of an Altamura archway in southern Italy Berenson sent her from there. Putting professional integrity before careerism, Colby, who had been warned by senior colleagues that he may ruin his career by going public with his findings, did send copies of his essay to the museum director Anne Hawley and to some members of the board of trustees, hoping these would influence their and Boston’s historical preservation bodies decision. A number of Gardner curators and staff appealed to the Boston media in a last-ditch effort to safeguard the condemned annex, asking that the carriage be at least moved or incorporated into the new project. The dispute reached its culmination when the Museum director, as she admitted publicly, threatened with dismissal those of the Museum’s curators who would not support Piano’s project. The unleashed furor in the Boston press was such that Hawley even hired a public relations company, Weber Shandwick Worldwide, to try to limit the potential damage. Commercial pragmatism winning over historic nostalgia, the Boston’s Mayor Tom Menino signed the demolition authorization. At the eve of the inauguration, bitter anger among some Museum staff continues to linger, now anonymously. Composed of four distinct volumes, arranged in a likely Palladian scheme, the whole is articulated by a monumental, ‘transparent’ stairway–arguably the most successful part of the work–recalling, in proportions and restrained elegance, the stairway of a Renaissance Palazzo. The surrounding glass panels and stairway hinging on minimal supports (recalling the graphically thrilling shadows of the ‘exoskeletons’ and brise-sleils of the exterior), multiplies to infinity the basic architectural concept the architects strived to achieve: a crystalline percussion of reverberating transparencies that allow a visual contact with the old Gothicizing Museum from any point observed. This ever-present connection only maximizes the unfortunate, artificial looking brick surfaces (painted in carmine red!) the designers used in the interior, instead of establishing an additional link to the Museum by replicating its gorgeous sfumato beige bricks. The clarity of the composition achieved on a difficult site of irregular shape between two existing buildings is regrettably disturbed by a nursery (Mrs. Gardner had a nursery, but she also had a Carriage House) running along a corridor servicing the administrative offices. Rather than reinforcing the Gardner’s green cortile by respecting its uniqueness, the greenhouse attached eccentrically to the new building, banalizes the precedent it is supposed to emulate. What is more, the hot-beds’ inclined glass surfaces (a memory of the inclined wall of the carriage House?), spanning the entire height of the building, are easily mistaken for solar panels. Worse, neither the offices, nor the new museum are actually open to the greenhouse. Visible only from the street, this nursery presents to the passer-by an ambiguous message about the nature of the building. One could argue that attempts at preserving the Carriage House would have been by far preferable. The program includes –another successful feat –a breathtaking 36-foot high cubic exhibition gallery that pleasantly surprises the visitor who has been moving till then through more constrained spaces. Its ceiling has further adaptable heights to 24 and 12 feet; next to it, another huge sound-proof concrete cube containing a concert hall, displays a sophisticated acoustic apparatus devised by the incorruptible Yasuhisa Toyota. The hall presents five-tiered, single-row seating galleries, running along the entire perimeter of the box, recalling a Sheaksperian theater. A restaurant, a living room, education spaces, conservation labs and two apartments complete this aptly assembled program. The relationship between the addition and the old museum is a thornier issue. The decision to have a single entry through the new building is a major error.Such way of entry is bound to color the visitors experience in ways Gardner would probably not have condoned. It betrays her deliberate theatrical vision for encountering her creation: the powerful contrast she attempted to convey between a secretive, introverted brick exterior and the spatial explosion the visitor experiences upon entering when suddenly faced with a vast cortile with its profusion of plants of all shapes and colors competing with multiple fragments of sculptures, venerable venetian windows and Moresque azulejos. Piano’s apparent lack of sensitivity for works that preceded his own, raises incomprehensible ethical and professional issues about an architect who is neither short of recognition nor of major commissions around the world