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L’architetto che sapeva parlare ai non architetti

Che posto occupa l’architettura nella stampa generalista?A chi è affidato il compito di documentare una materia che riguarda chiunque, dal momento che l’architettura è ovunque, scena onnipresente del nostro vivere quotidiano? Documentare è davvero il fine ultimo dei pochi articoli che i quotidiani italiani dedicano periodicamente a quell’insieme eterogeneo di saperi sintetizzato dall’espressione inglese built environment?
Due sono i luoghi tradizionalmente destinati a ospitare questo tema nei giornali: la pagina culturale e la cronaca locale, riflessi di culture e linguaggi radicalmente diversi e complementari tra loro. Se nella prima è ormai consuetudine diffusa affidarsi alla penna di un professionista famoso o critico affermato, facendo leva sulla funzione di richiamo del nome celebre, privilegiando il taglio saggistico dello scritto a scapito della notizia, la seconda, che si occupi dell’approvazione dell’ultima controversa valorizzazione immobiliare del centro antico di una grande città o del tortuoso iter di realizzazione di una biblioteca in previsione da anni, non sembra in grado d’innescare una discussione che oltrepassi gli angusti confini municipali. Una divaricazione, quella tra cultura e cronaca, che riflette le difficoltà di fare informazione in questo come in altri campi del sapere e che solo in parte è colmata dai magazine allegati settimanalmente ai quotidiani, in cui l’architettura è rappresentata, tranne in rare eccezioni, come un aspetto del costume, alla stessa stregua della moda o dello spettacolo.
Eppure esperienze straniere, quali quelle britanniche e statunitensi, insegnano che una mediazione tra questi due estremi è possibile: qui la formula dell’elzeviro firmato dall’architetto di grido è decisamente snobbata, mentre la netta prevalenza, anche per gli articoli di rilevanza nazionale, di giornalisti di professione, come Jonathan Glancey o Stephen Bailey in Inghilterra, Ada Louise Huxtable o Paul Goldberger negli Stati Uniti, figure esterne al campo professionale e accademico, crea, almeno in teoria, le condizioni per una separazione di saperi e ruoli che è garanzia di maggiore obiettività e di una più ampia diffusione della conoscenza di questa materia fuori da una ristretta elite.
Il rischio dell’autoreferenzialità implicito nell’apparente conflitto d’interessi qui appena evocato sembra tuttavia assente dalla produzione giornalistica di Gio Ponti, autore tra l’aprile 1930 e l’agosto 1963, di 130 articoli per il «Corriere della Sera». Si tratta di un aspetto meno noto del percorso professionale del poliedrico architetto, designer, docente universitario, fondatore e direttore di riviste milanese, su cui fa luce una recente antologia («Gio Ponti e il “Corriere della Sera”, 1930-1960», a cura di Luca Molinari e Cecilia Rostagni, Fondazione Corriere della Sera – Rizzoli, Milano 2011, pp. 950, euro 45), ma che tuttavia non è un caso isolato nel nostro paese.
Prima e dopo Ponti, almeno due altri protagonisti indiscussi della storia architettonica italiana ricoprono, seppur in modi e con frequenze diverse, analoghi incarichi: Marcello Piacentini e Bruno Zevi. Il primo, collaboratore fisso di quotidiani e periodici quali «La Tribuna», «Il Tempo», «Il Mattino d’Italia», «Il Popolo Romano» e «Il Globo»; il secondo, dal 1954 fino alla sua morte nel 2000, titolare della rubrica di architettura del settimanale «Cronache», poi ribattezzato in «L’Espresso».
La lunga collaborazione di Ponti con il giornale di via Solferino, due articoli al mese aventi per oggetto «la casa e tutti i problemi ad essa attinenti», in cui, come sarà lui stesso a precisare, non si parla «di architettura dal punto di vista artistico, cioè di tutte quelle questioni dell’architettura moderna che sono state e sono tuttora oggetto di fierissime polemiche, di adesioni appassionate e di riluttanze colleriche», intreccia tre decenni della storia d’Italia, di cui costituisce il caleidoscopico riflesso. Un lavoro caratterizzato dal susseguirsi di almeno quattro diverse stagioni, ciascuna esito d’un complicato intreccio tra vicissitudini della storia nazionale, parabola professionale dell’architetto e cambiamenti ai vertici del «Corriere». La prima di queste dura all’incirca quattro anni, dal 1933 e il 1937, e ha come protagonista assoluta la casa, terreno elettivo di quel complessivo progetto di divulgazione della cultura dell’abitare e dell’architettura moderne che Ponti persegue ormai da qualche anno, e di cui sono espressione la rivista «Domus», che fonda e dirige e i progetti di «case tipiche» per Milano. Dalla primavera del 1937, nella serie «Avvenire di Milano», non più in terza pagina ma nella cronaca milanese, gli scritti di Ponti registrano puntualmente tutti i nodi urbanistici di maggiore attualità del capoluogo lombardo, dal concorso per piazza del Duomo allo Scalo Sempione, dal nuovo auditorium al tracciato definitivo di piazza San Babila. I drammatici anni della guerra, con l’inizio della nuova avventura editoriale di «Stile», vedono un’ulteriore moltiplicazione di temi e problemi: agli articoli sull’arte per la casa, lo stile e il gusto dell’abitare, l’artigianato e la ceramica si affiancano quelli su materiali, autarchia e «casa per tutti»; temi che Ponti riprenderà e svilupperà dopo la guerra declinandoli secondo le impellenti necessità dettate dalla ricostruzione e dal Piano Fanfani.

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Last modified: 10 Luglio 2015