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Odile Decq: io, primo architetto in giuria alla mostra del Cinema di Venezia

Odile Decq: io, primo architetto in giuria alla mostra del Cinema di Venezia

Quando la Biennale di Venezia mi chiese di far parte della giuria della sezione Orizzonti (composta dal regista cinese Jia Zhang Ke, dal curatore della sezione film della Tate Modern di Londra Stuart Comer, dalla regista e produttrice egiziana Marianne Khoury Quando la Biennale di Venezia mi chiese di far parte della giuria della sezione Orizzonti (composta dal regista cinese Jia Zhang Ke, dal curatore della sezione film della Tate Modern di Londra Stuart Comer, dalla regista e produttrice egiziana Marianne Khoury
e dal regista e montatore Jacopo Quadri) mi dissero che ero la prima giurata architetto alla Mostra del Cinema. Ne sono fiera, ma sono soprattutto felice perché sono convinta che architettura e cinema abbiano davvero tanto in comune nella problematica dello spazio e della sua rappresentazione, e quindi anche codici di giudizio assolutamente compatibili.
La costruzione dello spazio architettonico segue spesso le stesse tecniche del fare cinema. Da sempre il mio lavoro segue punti di vista sequenza e messe in prospettiva che generano tensione, spostamento, movimento, e quindi una visione dinamica…
Fin dall’infanzia il cinema ha influenzato il nostro modo di guardare; il nostro sguardo è fatto di campo e controcampo, carrellate, profondità d’immagine, linee di fuga, montaggio in sequenza, narrazione cronologica o distorsione della narrazione, illusione della percezione. E questo si riflette nel mio lavoro.
Il cinema non è solo un’arte in movimento ma è l’arte del movimento: movimento della camera, degli attori, delle luci, dell’inquadratura, del montaggio e delle sequenze. Il cinema è un’arte che rifugge la gravità per imporsi nell’immaterialità dell’immaginario. Anche l’architettura cerca di scappare dalla gravità ma deve comunque farci i conti; il valore aggiunto sta nel cercare sempre nuovi sistemi per dare a chi guarda l’illusione che non ci sia gravità. Tutti miei progetti mettono i corpi in movimento spostando continuamente il visitatore che, in un museo come il Macro di Roma ma anche in una banca come la Banque Populaire de l’Ouest a Rennes, può percorrere lo spazio quasi come in una carrellata con profondità di campo cinematografica.
Per tornare all’esperienza di Venezia 2011, quelli che mi sono piaciuti di più sono due film che ci fanno interrogare sulla solitudine dell’individuo nella metropoli. Shame di Steve McQueen ne è la riuscita rappresentazione. Il protagonista, interpretato dall’eccellente Michael Fassbender, vive a New York e ci racconta un modo diverso di pensare e agire in rapporto alla sua profonda solitudine e all’idea che il futuro è una grande domanda. È assolutamente contemporaneo.
Anche nella sezione Orizzonti il film premiato Kotoko affronta lo stesso tema: la protagonista, particolarmente commovente, è portata alla schizofrenia dal suo doppio ruolo di donna e madre.
Mi sono spesso interrogata su quanto l’architettura condizioni il benessere psicologico dell’individuo, in particolare nelle grandi metropoli, e ho sempre ritenuto fondamentale progettare edifici in cui il rapporto con i sensi sia al primo posto: la luce, il tatto, la non prevedibilità degli spazi per sentirsi protagonisti e profondamente umani.
Ripensando nell’insieme alla sezione Orizzonti direi che, nonostante i numerosissimi film selezionati, c’era troppa poca sperimentazione. Pensavo che nel mondo dell’arte contemporanea, dove il linguaggio dei video e dei film è diventato fondamentale, la sperimentazione fosse il piatto forte. E pensare che nella nostra sezione non c’erano che film di artisti!
È stata comunque un’esperienza positiva perché ha palesato il mio pensiero sulla necessità di confronto con temi sempre diversi. Il presente ha bisogno di trasversalità culturale per nutrire e arricchire sempre più la nostra visione del mondo e la nostra adeguatezza.
La contaminazione tra le arti era normale fino alla prima metà del XX secolo, ma con la creazione degli ordini professionali e con la specializzazione eccessiva si è limitata la formazione umanistica che conferiva un forte valore aggiunto alla cultura europea. Come scrive la filosofa Martha Nussbaum nel testo Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, «lo spirito umanistico è ricerca del pensiero critico, sfida dell’immaginazione, ricerca empatica alle esperienze umane più varie, nonché comprensione della complessità del mondo in cui viviamo».
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Last modified: 22 Luglio 2015