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Francesca De FilippiWritten by: Città e Territorio

Haiti anno 1

Il 12 gennaio 2010 uno dei peggiori disastri naturali degli ultimi decenni, un terremoto di magnitudo 7,3 della scala Richter con epicentro non distante dalla capitale Port-au-Prince, colpiva Haiti. Il bilancio della catastrofe è uno dei più drammatici che la storia racconti: 225.000 vittime e oltre 1,8 milioni di sfollati.
A un anno dalla tragedia, le condizioni del paese restano estremamente critiche: la maggioranza delle persone colpite vive ancora in tende e ripari provvisori negli oltre 1.300 campi allestiti, in condizioni di estrema vulnerabilità, a rischio di contagio infettivo, esposta a pericoli per la propria sicurezza e in permanente dipendenza dagli aiuti umanitari.
Se una valutazione positiva concerne la tempestività e l’efficacia con cui le organizzazioni internazionali sono intervenute nel dar risposta ai bisogni primari della popolazione, non altrettanto può esser detto del processo di ricostruzione, ancora troppo lento e inefficace. Le ragioni risiedono in più fattori: dalla difficoltà di determinare la proprietà dei terreni, all’assenza di vitalità del sistema produttivo, alla presenza di una forte destabilizzazione del potere locale che implica fenomeni di violenza e conflitto civile. Tutto ciò s’innesta su una condizione di povertà strutturale presente ben prima del terremoto: case costruite su terreni alluvionali prive di accesso a servizi igienico sanitari, edifici pubblici non progettati per sostenere il rischio sismico.
Altre scosse, altre catastrofi hanno segnato la vita di Haiti in quest’anno, compromettendone la ripresa: l’uragano Thomas e l’epidemia di colera hanno inferto un ulteriore colpo a una popolazione già provata e in condizioni di vita e salute precarie. Nonostante le risorse mobilitate a livello internazionale siano state considerevoli (circa 3,1 miliardi di dollari), la strada verso la ricostruzione pare ancora lunga. Il successo di questo percorso dipende dall’applicazione di un piano di sviluppo di lungo periodo in collaborazione con i partner locali, e da un serio impegno e supporto a livello internazionale, svincolato dagli effetti mediatici che hanno garantito sì un forte flusso di finanziamenti, ma concentrato prevalentemente nei giorni successivi al disastro.
 
Onlus e concorsi
Durante tutto il 2010 molte organizzazioni umanitarie hanno offerto rifugi di emergenza, cure sanitarie, formazione e un supporto psicologico continuo alle popolazioni colpite. Una di queste, Care International, che opera nell’isola dal 1954, ha intensificato la propria presenza sul campo dopo la catastrofe. L’approccio di Care è d’incoraggiare la popolazione locale a realizzare in autocostruzione le proprie abitazioni transitorie. Facendo riferimento a un modello già sperimentato con buoni esiti in altre parti del mondo, i rifugi transitori sono parzialmente prefabbricati da maestranze locali e realizzati sul posto dalle stesse famiglie, sotto la supervisione di falegnami, tecnici e ingegneri. L’attenzione di Care va al binomio «transitorio» vs «temporaneo», con il significato che l’intervento può essere migliorato, ampliato, riutilizzato e convertito in un’abitazione permanente.
 
«Housing and Health in Haiti»
Mentre Care è impegnata nella formazione professionale nel settore della costruzione per i residenti, l’organizzazione Archive (Architecture for Health In Vulnerable Environments) lavora a fianco di Febs (Foundation Esther Boucicault Stanislas) allo scopo d’individuare progetti abitativi efficaci per combattere la diffusione della tubercolosi, realizzabili a bassi costi e facilmente replicabili per abitanti affetti da Aids. A un anno dal terremoto, Archive ha annunciato i vincitori di «Kay e Sante nan Ayit» (che in creolo significa «Abitazione e salute ad Haiti»). Una commissione interdisciplinare ha valutato le 147 proposte sulla base di replicabilità, uso dei materiali e delle tecniche costruttive locali, sostenibilità, compatibilità alle condizioni climatiche e sismiche, aderenza al budget e attenzione alle condizioni igieniche.
Ha vinto il progetto «Breathe House», concepito da un team interdisciplinare anglo-americano. Illuminazione e ventilazione naturale, un sistema indipendente a energia rinnovabile e accesso ad acqua potabile sono le caratteristiche principali della proposta. Il progetto esalta l’uso di competenze costruttive, materiali e professionalità locali; il team ha anche elaborato una guida per l’utente al fine di avvicinare la popolazione al tema casa-salute.
Approccio nettamente differente è quello di «Maison Canopy», opera di due architetti statunitensi orientati alla realizzazione di una sorta di santuario per la mente e il corpo, caratterizzato dalla presenza di una struttura a pianta libera per incentivare le relazioni tra i residenti. Gli spazi comuni sono isolati e l’uso di ventilazione naturale e recupero dell’acqua s’intrecciano con un’attenta riflessione sulla gestione dei rifiuti e sui servizi igienici.
Il terzo posto è andato a un team italiano che con «Shutter Dwelling» propone un modello abitativo basato sulla compartimentazione tra la zona notte e il resto delle attività, allo scopo di limitare la circolazione di aria infetta. Anche in questo caso il progetto propone l’uso di materiali e tecniche locali, come le murature in blocchi e le struttura a ballon frame. Le menzioni d’onore sono andate a un team americano e a uno dominicano.
I prototipi dei progetti finalisti saranno realizzati a partire da marzo; una mostra itinerante illustrerà i contenuti del concorso e le proposte selezionate, in particolare nei paesi in via di sviluppo con l’obiettivo di sensibilizzare professionisti e costruttori.
 
«Building Back Better Communities»
Mentre questo giornale va in stampa si attendono anche i vincitori del concorso sponsorizzato dal governo haitiano per la progettazione di abitazioni post terremoto. Il concorso, che ha ricevuto oltre 400 adesioni, è stato promosso da John McAslan+Partners, studio di architettura con sede a Londra molto coinvolto nel processo di ricostruzione, in collaborazione con Clinton Foundation, World Bank e Architecture for Humanity. I requisiti espressi dal bando: appropriatezza, sostenibilità economica e culturale, facilità di realizzazione (con impiego di risorse locali), uso di energia solare e previsione di sistemi di raccolta dell’acqua piovana.
In maggio è in programma una mostra dei progetti vincitori, con l’obiettivo di far incontrare organizzazioni no profit, architetti e costruttori. La fase successiva riguarda la realizzazione dei migliori progetti, al fine di costruire una sorta di villaggio permanente.
 
Luoghi ritrovati
Lo studio McAslan ha inoltre promosso iniziative per la conservazione e il restauro dell’architettura storica di Haiti, come l’Iron Market a Port-au-Prince, costruito nel 1891 e considerato uno dei simboli della storia e cultura locale, gravemente danneggiato nel 2008 e completamente distrutto dal sisma. La struttura, recuperata completamente grazie a fondi privati, è stata riaperta e restituita alla città il 10 gennaio scorso durante una cerimonia alla presenza di Bill Clinton. Un intervento discutibile se si pensa alla cifra stanziata (12 milioni di dollari), a fronte di emergenze gravi quali la possibilità di restituire una casa al milione e mezzo di persone che ancora vive in tende o rifugi di emergenza. L’obiettivo, espresso con chiarezza da progettisti e promotori, è offrire alla collettività un segno di speranza e fiducia, perchè possa ricominciare a vivere anche a partire da un luogo che è parte della propria identità.

Autore

  • Francesca De Filippi

    Architetta e professore associato, insegna Tecnologia dell’architettura e Advanced environmental technological design al Politecnico di Torino, dove dirige anche il CRD-PVS, Centro di ricerca sui temi dell'habitat nel Global South. Temi centrali di ricerca-azione e didattica riguardano il progetto di architettura in contesti in condizioni al limite e di scarsità. Ha una lunga esperienza di coordinamento di progetti di formazione, ricerca e cooperazione internazionale in Paesi extra –UE (in particolare Africa, Asia, America Latina). Coordina il Master del Politecnico di Torino: “Techs4change. Design for social and technological innovation in Development.” È membro del Consiglio di indirizzo della Fondazione per l’architettura di Torino

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Last modified: 10 Luglio 2015