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Laura MilanWritten by: Professione e Formazione

Affidamenti d’incarico: Università vs Professionisti

1. Crede che la possibilità data alle Università e agli istituti di ricerca di partecipare alle gare d’appalto pubbliche per la fornitura di servizi sia positiva? Perché?
In prospettiva forse. In prima battuta non credo. L’Università sta vivendo un forte cambiamento per il quale molto personale docente, ricercatore e tecnico-amministrativo non è attrezzato. «Navigare nel libero mercato» prevede di operare scelte con rapidità e criteri di accordo e d’interesse che non sono nel Dna dell’Università italiana. Senza contare che molti altri aspetti economico-gestionali (tipici del diritto pubblico) non possono essere eliminati con un colpo di bacchetta magica. Al di là della possibilità, nei fatti sarà molto complesso partecipare a gare d’appalto pubbliche e qualora fosse anche possibile mettere in atto un’offerta concorrenziale poi si dovranno gestire attrezzature e personale con una logica che, nell’esecuzione dei servizi e delle opere, non produca un danno o un mancato utile. Quali sono i gradi di tutela e i fattori di rischio che l’Università sarà pronta rispettivamente a mettere in campo e a sopportare? Oggi è molto difficile poterlo anche solo immaginare, in quanto i criteri con cui si sviluppa la gestione del «sistema pubblico» non prevedono neppure (il più delle volte) che questo tipo di ragionamento venga attivato. Il mio parere nasce dal punto di vista di un osservatorio privilegiato, essendo in questo momento responsabile scientifico della Piattaforma costruzioni dei tecnopoli della rete ad alta tecnologia della Regione Emilia-Romagna e avendo collaborazioni costanti con il Consorzio Ferrara ricerche, un ente giuridicamente privato senza fine di lucro a capitale misto che opera in regime di libera concorrenza, con il quale è stato possibile vincere gare d’appalto nazionali e internazionali.

2. Quali conseguenze avrà sul mercato, dal vostro punto di vista?
Nel tempo (forse) qualche conseguenza si potrebbe anche innescare, ma dovranno cambiare molti atteggiamenti autoreferenziali tipici di un processo decisionale che utilizza un ruolo «dominante», non tanto di privilegio come era un tempo (un privilegio che era per lo più fondato sulla «sicurezza» economica determinata da «sicuri» finanziamenti pubblici che ora non esistono più), quanto piuttosto dall’abitudine consolidata di procedure e modalità contrattuali impostate su criteri poco flessibili e adattativi. Poi ci saranno delle compatibilità statutarie che dovranno essere valutate caso per caso ma, visto il processo di riforma che obbligherà le Università a riscrivere i propri statuti al massimo entro nove mesi, è da immaginare che si terrà conto di queste nuove opportunità. Se l’obiettivo principale delle norme comunitarie in materia di appalti pubblici vuole essere quello della libera circolazione dei servizi e l’apertura alla concorrenza non falsata in tutti gli stati membri, è facile immaginare che nel tempo alcuni modus operandi non avranno più cittadinanza e l’ingresso delle Università (del futuro) possa anche aiutare a migliorare il clima e il contesto delle domande e delle offerte. Un’Università più disponibile a capire il ruolo dell’impresa, a sviluppare trasferimento tecnologico e di formazione finalizzata, a valorizzare un grado di competitività rivolto verso l’alto.

3. Riformulerebbe quindi la norma? Quali parti modificherebbe?
Non mi sento attrezzato e competente per consigliare nuovi testi, in un settore come quello dei lavori pubblici che da trent’anni è così tragicamente coinvolto dagli effetti devastanti di leggi e normative per lo più estranee al «buon senso del fare e dell’operare». Norme che avevano sempre un fine diverso da quello per cui venivano prodotte. Se si potesse monitorare con serietà l’andamento delle gare d’appalto (nel farsi e soprattutto nel continuo disfarsi) si avrebbe un quadro molto triste in cui il procedimento «andato a buon fine» è una rarità, senza contare la condizione di crisi in atto, che produrrà le contrazioni più dolorose nei prossimi due anni, quando non ci saranno progetti sui quali immaginare investimenti e di conseguenza gare d’appalto. Insomma, secondo me è giusto interrogarsi sul ruolo di «operatore economico» o di «imprenditore» in rapporto a finalità istituzionali e ai sensi delle varie direttive comunitarie, dei vari codici e nel rispetto di sentenze, orientamenti e pronunciamenti dell’Autorità o della Corte di giustizia, ma credo che non potrà bastare. Quando l’Università per essere concorrenziale sul mercato dovrà chiedersi se è «utile» proporre uno sconto del 45% (come sta accadendo oggi), che cosa farà? Se si vuole un sistema della ricerca applicata in cui le professionalità siano rispettate anche a contatto con il mondo dell’impresa, molte altre norme dovranno cambiare, come molti cervelli dentro l’Università.

Autore

  • Laura Milan

    Architetto e dottore di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica, si laurea e si abilita all’esercizio della professione a Torino nel 2001. Iscritta all’Ordine degli architetti di Torino dal 2006, lavora per diversi studi professionali e per il Politecnico di Torino, come borsista e assegnista di ricerca. Ha seguito mostre internazionali e progetti su Carlo Mollino (mostre a Torino nel 2006 e Monaco di Baviera nel 2011 e ricerche per la Camera di Commercio di Torino nel 2008) e dal 2002 collabora con “Il Giornale dell’Architettura”, dove segue il settore dedicato alla formazione e all’esercizio della professione. Dal 2010 partecipa attivamente alle iniziative dell’Ordine degli architetti di Torino, come membro di due focus group (Professione creativa e qualità e promozione del progetto) e giurata nella nona e decima edizione del Premio architetture rivelate. Nel 2014 costituisce lo studio associato Comunicarch con Cristiana Chiorino

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Last modified: 10 Luglio 2015