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Written by: Design

Gaetano Pesce: insegno quello che non so

Incontriamo Gaetano Pesce qualche giorno prima dell’inaugurazione del Salone del mobile. Ci presenta «L’Italia in croce», un’installazione provocatoria in legno e resina alta più di 7 m e concepita, ma non realizzata, a fine anni settanta, durante gli «anni di piombo». Un atto di denuncia, valido ancora oggi e per questo riproposto, verso chi ha causato la crocifissione del Paese. «Non è un discorso politico, è un messaggio rivolto a tutti noi cittadini italiani che contribuiamo con il nostro pessimismo e le nostre critiche costanti a crocifiggere il paese. Questa installazione intende dire che forse è arrivato il momento di voltare pagina ed essere positivi, è un atto d’amore verso l’Italia».
La conversazione si sposta rapidamente su alcune sue sedute fuoriscala realizzate recentemente attraverso la manipolazione di resine morbide. Sono una diversa dall’altra: possiamo considerare questi lavori come prodotti di design nonostante la loro unicità? «Sono cinque pezzi unici che fanno parte però di una famiglia di oggetti che sarà implementata nel tempo. La tecnica impiegata non può consentire la ripetizione, in questo senso si tratta di pezzi unici. Le sedute esposte sono diverse per volume, colore e modo di lavorare la materia». Il tema del difetto ricorre nella sua attività progettuale, che cosa intende per oggetto imperfetto? «L’imperfezione è un qualche cosa che si dà all’oggetto per far sì che esso conservi l’impronta di chi lo ha realizzato. Chi lo ha materialmente creato non è un individuo perfetto, la perfezione assoluta si può riscontare solo nella macchina. L’imperfezione è “l’umano” e, a mio avviso, il difetto rappresenta la massima qualità dell’oggetto». L’intervento «umano» di cui lei parla si configura anche in fase progettuale? «Sì. Le industrie, italiane soprattutto, per le quali lavoro presentano al loro interno professionalità molto preparate che intervengono fin dall’inizio. Io propongo un’idea, alcune volte anche molto vaga, insieme a loro diamo forma al progetto. È un lavoro in team. Ci sono personaggi che non sono solo dei meri esecutori: sono persone con grande esperienza, capacità tecnica e conoscenza nell’uso dei materiali. A volte sono gli stessi utenti che partecipano al processo modificando l’oggetto secondo i loro bisogni. La scarpa che ho progettato per l’azienda brasiliana Melissa è, ad esempio, un processo. La scarpa acquistata in negozio non è un prodotto finito; viene richiesto un intervento di personalizzazione da parte dell’utente. Chi l’acquista può ritagliare con facilità lo stivale e trasformare la calzatura in una scarpa bassa, oppure in un sandalo da mare o altro. Sono convinto che quello che si può fare da soli non è altrettanto ricco come quello che può essere fatto insieme ad altri. E tutto questo insieme alla materia». Veniamo ora a un principio del design spesso solo evocato dai designer contemporanei: il concetto di democrazia. Come conciliare un valore così importante con l’industrial design? «La democrazia non deve garantire solo l’uguaglianza, deve proteggere la diversità. Anche gli oggetti hanno questo magnifico diritto di essere diversi. Come produrre degli oggetti con una propria identità di forma? Spostandoci nel campo dell’architettura, quella che definisco «pluralista» si può realizzare quando non interviene un solo architetto, che produce per lo più opere monotone, ma quando lavorano insieme più professionisti. Questo tipo di architettura fa emergere i diversi caratteri delle persone e i diversi linguaggi». Lei non ama le convenzioni, gli standard: come s’insegna la professione del designer? «”Insegno quello che non so”, ho risposto una volta a una persona che mi chiedeva che cosa insegnassi all’Università di Strasburgo. In effetti credo sia questo l’unico modo per mettere gli studenti nella condizione d’interrogarsi e sperimentare, spingerli a esprimere se stessi e non obbligarli a ricevere solo le conoscenze accademiche, per definizione superate».

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Last modified: 10 Luglio 2015