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Written by: Forum

Ground Zero/da New York: un Everest di pessima architettura

Vivendo in centro, passo accanto al sito di Ground Zero almeno una volta alla settimana. C’è un gran fermento, gru e lavori ovunque, folle di turisti e venditori ambulanti: un’attività febbrile. Anche i progetti stanno prendendo forma. Il «One World Trade Center», la ex «Freedom Tower», è già a metà, il memoriale è quasi ultimato e la torre di Maki, nell’angolo a sud-est, è a circa un terzo.
Pur non essendo ancora emersa dal suolo, l’opera da quattro miliardi di dollari di Santiago Calatrava che ricorda una lisca (bersaglio di commenti sempre più caustici per l’ingente spesa con cui servire 65.000 pendolari al giorno) è l’unico elemento architettonico del sito con vere ambizioni. Le torri di Norman Foster e Richard Rogers attendono notizie dal mercato, ma i giornali annunciano che l’impero editoriale Condé Nast si trasferisce da Times Square a «One World Trade Center» e chi, come me, abita nel quartiere aspetta di certo con ansia le frotte di limousine e i vari locali nuovi e caotici in cui pranzare. 
Mentre i due grattacieli vengono coperti dai rivestimenti ermetici, anticipazione di un’architettura superscialba che non supererà mai il cliché del design aziendale, quello che è evidente sono le dimensioni imponenti e l’effetto vitreo. Per via dei loro muri portanti, le vecchie torri venivano considerate opache e solide. I nuovi edifici saranno lucenti, riflettenti, con muri sottili, patinati, lisci. L’insieme sarà un caos di specchi e uniformità alla Monsieur Hulot, un andirivieni infinitamente regressivo che tenta di catturare il riflesso di qualcosa di davvero autentico (il bello e nobile Barclay-Vesey Building di Ralph Walker del 1927 è già stato ridotto a un nano dalle torri incombenti che lo circondano). Questo accecante sviamento è l’architettura della paranoia. Con la sua interiorità cancellata, le strutture nascoste, l’infinità di guarnizioni per schermare lo sguardo dall’esterno (e la sostanza), l’inclusione di una mostruosa infrastruttura di sorveglianza e «sicurezza», sarà un luogo assai strano e sgradevole, smodato nelle dimensioni e aggressivo nella sua mancanza di umanità.
L’occultamento fornito dall’apparente trasparenza è stato inoltre sottolineato dal recente annuncio che la base del «1 World Trade Center» non avrà il rivestimento in speciale vetro rifrangente deciso in origine. La patina doveva nascondere il fatto che l’imponente base dell’edificio è, in realtà, un bunker di cemento a prova di bomba contro eventuali attacchi futuri. A quanto pare, la fabbricazione dell’elegante camuffamento si è rivelata tecnicamente impossibile, e così il rivestimento sarà più convenzionale, ma è assai probabile che celi comunque la differenza tra i più vulnerabili piani superiori (con finestre vere) e la base inespugnabile, il tutto al servizio di un’ascesa visiva ininterrotta lungo questo Everest di pessima architettura e di un’altrettanto costante discesa delle aspettative architettoniche.
A onor del vero, bisogna essere grati del fatto che quanto stanno costruendo è stato ampiamente privato della ricercatissima semiotica del progetto originale. L’unico residuo dell’ossessiva spigolosità di Daniel Libeskind è il piccolo edificio quasi ultimato dello studio Snøhetta, per altri versi ottimo, che funge da ingresso, spazio espositivo e aerazione del museo commemorativo sotterraneo. Chissà come sarà all’interno, ma da fuori la forma e i fregi sono un omaggio all’altrimenti scomparso spirito dello sghembo. Insieme alle molte altre vistosissime strutture di servizio lungo West Street, sembra in crudele contrasto con la serenità orizzontale del monumento, sfaccettato, perturbante, superfluo.
La controversia che infuria in questa settimana di fine giugno riguarda il costo d’ingresso al museo dell’11 settembre che, com’è stato annunciato, sarà di circa 20 dollari. Ecco che ritorna il problema alla base della costruzione del sito: la spaccatura di fondo tra il beneficio pubblico e l’esaltazione privata che rappresenta. Uno dei marchi del sistema sociale americano è la crescente diffusione delle cosiddette «partnership tra pubblico e privato», e con loro dell’idea che lo spazio pubblico debba sostentarsi da solo, che un parco debba avere un caffè o un condominio per coprirne i costi. Nel sito di Ground Zero il «tema» sarà di fatto la fusione di memoria e profitto. La sproporzione tra i giganteschi grattacieli, che escludono il memoriale assediato, e il museo a pagamento, sarà la testimonianza di quanto c’è di sbagliato e di meschino nell’odierna cultura americana.
Avendo io perorato l’idea che il sito restasse non edificato, penso con malinconia a come poteva essere, allo sviluppo edilizio in un altro punto della città, alla creazione di uno spazio civico maestoso e utile, e a un gesto estroverso di ossequiosa commemorazione.

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Last modified: 10 Luglio 2015