Linchiesta su Torino viene a cadere in una congiuntura davvero importante per la città. Non ci sono solo le elezioni amministrative: si conclude una stagione, quella di Sergio Chiamparino sindaco. Per questo linchiesta dà voce a tanti attori. Per questo, chi scrive, non può e non vuole sovrapporre la sua voce a chi interviene. Non può perché in questa stagione ha goduto di un osservatorio privilegiato, quello dellUrban Center Metropolitano. Non vuole, non solo per unappena ovvia questione di etica pubblica, ma anche perché il Giornale non è mai stato una tribuna, ancor meno di una funzione diversa del suo direttore. La mia è dunque una testimonianza che si aggiunge alle altre, nulla più. Di che cosa è testimonianza?
La prima tentazione sarebbe di fare un mio bilancio, che non mi spetta. Proverò allora a restituire alcune esperienze. Inverno-primavera 2003. Torino ritorna allattenzione nazionale per due grandi paure, che sidentificano con due quartieri della città. Il quartiere di San Salvario diventa il paradigma nazionale dellinsicurezza e della paura del diverso, Mirafiori di una deindustrializzazione che tocca il cuore, anche simbolico, dellidentità torinese. A otto anni di distanza San Salvario appare il quartiere dove gentrification e mixité di funzioni stanno cambiandone non solo limmagine, ma la composizione sociale e funzionale. A Mirafiori è ancora in gioco il senso del cambiamento: è il luogo di una sofferenza diversa, quella di un mutamento insieme delle regole e delle forme di coesione sociale. Ma è cambiata anche la percezione che hanno i cittadini della centralità e del ruolo di una fabbrica che era stata il sinonimo di laboratorio politico in Italia e non solo.
Inverno-primavera 2005. Lavvicinarsi delle Olimpiadi segna il compiersi di un serie dinterventi. Ritornano a essere vivibili alcune delle più belle piazze storiche della città. La polemica è fortissima e riguarda parcheggi e arredo urbano. Vengono contemporaneamente alla ribalta i quartieri dove più profondo è il passaggio da aree industriali a residenziali, le Spine: inizia la stagione, ancora non conclusa, delle polemiche sulla qualità architettonica. Sei anni dopo le piazze sono spazi pubblici, invidiati da quasi ogni visitatore di Torino. Il problema delle Spine evidenzia invece la difficoltà di ampliare città e cittadinanza, agendo con il solo strumento della trasformazione urbana per creare nuova cittadinanza. Con alcune, non marginali notazioni. Nella crisi di un ceto medio sempre più evidente, proprio la politica urbana sta favorendo una ri-urbanizzazione di ceti sociali che erano fuggiti dalla metropoli insicura. Quelle non splendide architetture sono abitate da cittadini che sono ritornati dai piccoli Bronx che anche attorno a Torino si erano creati, per contribuire a creare città. Ed è del sette di questo mese il conferimento alla nuova architettura del Museo dellAutomobile del Premio In-Arch/Ance per la migliore opera italiana degli ultimi cinque anni.
Giugno 2008. Si svolge a Torino il Congresso mondiale degli architetti: occhio più critico non può esserci sui risultati dellurban renewal. Pochi mesi dopo, prende avvio il progetto del Comune che prenderà il nome di Variante 200, oggi Barriera CEntro. Raccontare la sorpresa che il viaggio dentro Torino suscita in visitatori stranieri è diventato quasi un genere letterario. Non sono però i «turisti» ma i professionisti della terra, come venivano chiamati nel Settecento, a restituire particolari, scorci, vedute, valori della città che il torinese o il turista non coglie. Questi visitatori ci educano a leggere e a valorizzare la nostra città. La scelta di privilegiare la zona Nord di Torino non è stata facile, né senza conflitti. Ha accompagnato però un cambiamento che i progetti sullarea della Lavazza, sul Cineporto, dellasse di corso Regio Parco già segnalavano. Lo ha fatto privilegiando due strumenti: il governo della valorizzazione economica che uninfrastruttura produce e la progettazione urbana soprattutto a scala morfologica e non di singoli edifici. La scommessa, forse la più affascinante delle tante intraprese, è di ampliare città e cittadinanza, portandole al confine di Torino e aprendo un dialogo con chi su quel confine si affaccia.
Il passaggio da una lunga stagione keynesiana, fondata sugli investimenti pubblici e su una politica di deficit di bilancio per finanziare infrastrutture, a una stagione dinterventi fondati sulla necessità di allargare la mixité urbana e investire nella «cura» della città novecentesca che ancora non si conosce, genera quasi una precoce elaborazione del lutto. La paura che aleggia in città è che mancando grandi eventi e mete facili da condividere, perché segnate da date, sia quasi inevitabile un declino. Losservatorio di cui ho potuto usufruire mi consente di dire che se esisterà continuità nella gestione di un governo della trasformazione urbana fondato sul dialogo e di ciò che è bene comune, questo non potrà accadere.
Torino ha valorizzato, in questi anni, una sua antica tradizione: una terzietà profonda, concedendo spazio nel sociale, nellassistenza, nella cura, nelle politiche sui beni architettonici, non solo nel governo della città, a quanti fossero in grado di portare avanti progetti, non arrogando alla politica il potere di discriminare. La transizione (che è peraltro condizione permanente della vita urbana) pone mete non solo ancor più ambiziose, ma segna la speranza che su questa strada si prosegua, radicalizzando i principi sui quali si è costruita questa stagione: la capacità di cogliere opportunità e di trasformarle in bene comune e non di vivere di rendite, sociali e professionali, non solo immobiliari.
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