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Luca GibelloWritten by: Interviste

Mario Cucinella, premio alla carriera «intraluoghi»

Il 3 giugno Mario Cucinella ha ricevuto a Friburgo il riconoscimento alla carriera nell’ambito del Premio biennale nazionale di architettura «Intraluoghi», assegnato dagli Ordini degli architetti di Avellino, Genova e Friburgo. Cogliamo l’occasione per parlare del lavoro del suo studio.

I riconoscimenti alla carriera di solito vengono intesi come punti  d’arrivo. Tuttavia, in una sua recente conferenza, ha presentato il rapporto tra progetti elaborati dal suo studio e realizzazioni: usando la metafora dell’efficienza, la «resa» è piuttosto bassa…
Abbiamo stilato quella graduatoria per fare un po’ un bilancio. Erano progetti degli ultimi dieci anni: 110 concorsi, 114 commesse e 15 edifici realizzati. Questo dà la dimensione del mercato. Rispetto alle commesse è un 10%, e mi va anche bene che sia così perché, se si guarda ai progetti e alle realizzazioni di altri architetti, nella fase in cui sono anche io, cioè quella in cui gareggio e lavoro su commesse a rischio, i numeri più o meno sono quelli. Però questo dà l’idea della fatica di vivere in un mercato competitivo, non in un’area protetta in cui il lavoro arriva comunque. Volevo rendere l’idea di questa fatica perché secondo me è importante che le persone capiscano quanto lavoro c’è dietro a un progetto di architettura.

Provocatoriamente, il «Giornale» aveva presentato la nuova sede di 3M Italia al Portello come «copia-incolla» del Sieeb di Pechino. Nell’approntare un nuovo progetto, quanto c’è di ricerca e quanto di «riciclo» di soluzioni pregresse? Il riciclo come ottimizzazione del lavoro di uno studio?
Sì, avete ragione. Però è anche vero che il patrimonio creativo che c’è in un progetto non è usa e getta, del tipo «faccio una cosa e poi la butto via». Io ho sempre sostenuto che anche perdere i concorsi è utile, perché quel lavoro è stato un esercizio creativo che ci ha fatto scoprire delle soluzioni e ha investigato un tema che potrebbe tornare utile in un altro caso. È vero che ogni progetto è un unicum, ma è altrettanto vero che ognuno di noi lavora su temi che possono in qualche modo riemergere. Io non lo vedo come un riciclaggio. Il fatto che molti progetti ne suggeriscano altri credo che faccia anche un po’ parte del nostro mestiere. Il nostro è anche un mondo in cui alla fine si pesca un po’ tutti dallo stesso calderone. È una cosa che non mi piace, e per questo non sono un grande amante delle riviste, perché secondo me si finisce bene o male per fare delle cose più o meno uguali.
Il vostro commento all’edificio di 3M mi ha sorpreso: io non ci avevo neanche pensato; nel guardarlo non mi sembra che siano poi così uguali. Era un tema che avevamo già affrontato e l’abbiamo reinterpretato, ma non lo vedo come un fatto di riciclo. Elaborando 110 concorsi, 114 commesse, ecc si generano tante soluzioni che possono essere in qualche modo un patrimonio. E un artista che dipinge non è che può cambiare la pennellata ogni volta che fa un quadro! Fa parte anche della crescita del patrimonio di uno studio e in questo io non ci vedo niente di male…

A fronte di un approccio metodologico riconoscibile, Mario Cucinella Architects è impegnato su progetti disparatissimi: dai centri commerciali, al recente lavoro per un’immobiliare in Ghana, al progetto di scuola in Palestina fino ai cantieri in Cina: si possono applicare certi temi di ricerca a qualsiasi tipologia o destinazione d’uso? Non si dice mai di no a nessuna commessa? Si è sempre sicuri di avere l’idea giusta?
Mi è capitato di dire di no, anche perché il mio è un mestiere che non posso fare da solo, e comunque non sono in una posizione in cui posso scegliere una lista di progetti. Abbiamo avuto l’opportunità di fare un centro commerciale (almeno il progetto) e abbiamo cercato delle soluzioni che ci permettessero d’immaginare un altro tipo di centro commerciale. E ci capita di fare degli uffici «speculativi», di natura commerciale, ma anche progetti di ricerca come quello della casa 100K o la scuola di Ramallah, piuttosto che adesso l’Università di Aosta. Fare progetti di natura etica differente credo faccia un po’ parte del mio mestiere, perché non posso auto-commissionarmi il lavoro e devo dialogare con i clienti. Può capitare però che alcuni chiedano delle cose per le quali lo studio non ha alcun interesse, in quanto non ci si può confrontare con i temi energetici. Che poi di quei temi si riesca a considerare il 100%, l’80% o il 50% fa parte della dialettica e del conflitto che c’è sul lavoro. Però parto dal presupposto che ci sia un interesse comune. Del resto si può dire di no; e uno lo può leggere anche nella dichiarazione dei redditi di uno studio professionale.

Insieme a Cino Zucchi (seppure quasi opposti come tipo di ricerca), per analogie generazionali, lei è un protagonista di primo piano nel dibattito architettonico: la invitano un po’ ovunque, tiene almeno una conferenza a settimana, è impegnato in premi e giurie, ecc. L’essere «prezzemolo» non rischia d’inflazionare la propria immagine? Forse un maggiore riserbo permetterebbe di prendersi tempi per riflettere e non raccontare sempre le stesse cose…
Questo è un tema di grande attualità anche all’interno dello studio. Ho sempre ritenuto che una parte del mio mestiere sia anche quella di raccontarlo. Al di là dei rapporti di natura commerciale con i clienti, c’è anche il momento della divulgazione dei temi su cui si lavora, e questo vale anche per gli altri colleghi. Ciò non toglie, e su questo avete ragione, che tutto ciò stia diventando un meccanismo cronico (che ovviamente non controllo io) caratterizzato da una conferenza al giorno in giro per il mondo. Nell’ultimo anno mi sono trovato molto spesso a fare queste cose, ma lo studio non sono solo io, ci sono altre 30 persone ed è ora che comincino ad andare in giro i ragazzi, perché ciò che vogliamo esprimere non è il pensiero di Mario Cucinella ma il pensiero dello studio. Negli ultimi tempi comunque sono più selettivo, perché c’è una proliferazione di eventi di basso livello il cui unico interesse è chiamare una volta Antonio Citterio, una volta Cino Zucchi, o un altro, solo per dimostrare che succede qualcosa.
Per quanto riguarda gli spazi di riflessione, li trovo quando viaggio per andare a parlare o a incontrare qualcuno. Ad esempio a luglio vado a Taiwan per una giuria (io che detesto le giurie perché non riesco a giudicare serenamente il lavoro degli altri…), e in quel viaggio avrò molto tempo per riflettere sulle cose che faccio: un po’ perché sono lontano, un po’ perché conoscerò nuovi luoghi. Molti dei miei appunti e del mio lavoro nascono proprio durante questi viaggi.
Inoltre mi fa molto piacere parlare in pubblico, perché raccontando e guardando il lavoro mi accorgo di molte cose che avrei potuto fare, ed è quasi una revisione critica. Certo, meglio non farlo tutte le settimane perché sarebbe un incubo, però un paio di volte l’anno è bello avere dei momenti di confronto, sentire il rapporto con le persone e capire se hai toccato il loro livello emotivo, se sei riuscito a dire qualcosa di significativo.

Lei è diventato noto al pubblico dei non addetti ai lavori per la casa da 100K (100.000 euro per 100 mq): allora conta di più il marketing nella comunicazione o la ricerca progettuale?
Una cosa è conseguenza dell’altra. Perché la casa 100K è nata come una disquisizione interna allo studio e non avevamo avuto nessun sentore d’interesse da parte del mercato: ci siamo posti noi una domanda e abbiamo tentato di rispondervi. Se poi gli altri ci hanno costruito sopra un’operazione di attenzione, io cosa ci posso fare? Vuol dire che abbiamo avuto un’intuizione! Però non è il contrario, perché sarebbe molto dannoso; e se si trattasse di un’operazione squisitamente di marketing non staremmo ancora a parlarne. Non voglio giocare sulla comunicazione per attirare l’attenzione, e spero che prima o poi si riesca a costruirle, queste case. Avevamo avuto contatti con il Comune di Settimo Torinese, poi perso per strada per via delle polemiche sorte sui giornali. Poi c’è stato l’interessamento di Lodi ma, dopo aver cominciato, mi sono fermato perché l’intento
non è far costruire le case a 100.000 euro che poi però si vendono a 290.000. Non m’interessa né questo né realizzare 500 appartamenti a 100.000 euro: m’interessa che ci sia un soggetto che decide; come un fondo sociale, un Comune che investe magari con strategie di perequazione del terreno o dei volumi… Insomma, vorrei partecipare a una vera opera sociale e non realizzare una «casa sociale».
C’è sempre qualcuno che ci chiama, ad esempio adesso devo andare in un Comune vicino a Roma, dove un assessore all’edilizia pubblica vuole proporre le case. Però poi il mercato è abituato al fatto che il soggetto pubblico non sia più un attore; ciò è deleterio, perché significa abdicare al suo ruolo di  decisore del futuro della politica della casa. I comuni hanno già dato la delega ai privati, quindi il tuo interlocutore è pur sempre un costruttore che ovviamente cerca il suo tornaconto.
Ci racconti qualcosa del suo impegno con le Nazioni Unite e l’Agenzia per i rifugiati palestinesi.
Sono andato in Palestina, ho fatto due conferenze sulla sostenibilità e, senza che nessuno mi chiedesse nulla, ho incontrato alcuni funzionari delle Nazioni Unite (Unrwa) che realizzano scuole in Palestina e a Gaza. Allora, ho posto a me stesso e a loro una domanda molto semplice: perché non lavorano con gli elementi ambientali che ci sono in  questo paese? Perché non si fa la raccolta di acqua piovana, non si adotta nessun criterio di ombreggiamento, non si considera il rapporto con il clima nei loro edifici? Il nostro progetto per la scuola funziona senza bisogno di niente. A esso tengo molto perché è la dimostrazione, come anche la casa 100K, che al di là della politica giusta o ingiusta, dei soldi che girano, quello che può cambiare, che può dare una svolta è una buona architettura. Sarò a Gaza con le Nazioni Unite per vedere come attuare questo progetto, poi ai campi profughi vicino a Gerusalemme a parlare con la Municipalità per realizzare un centro sociale. E così che l’architettura diventa un elemento determinante per realizzare cambiamenti, perché intorno al progetto della scuola si costruisce tutto un modo di attenzione, fondi, donatori, politiche. Io trovo che quello sia anche il valore sociale del mio lavoro.

Autore

  • Luca Gibello

    Nato a Biella (1970), nel 1996 si laurea presso il Politecnico di Torino, dove nel 2001 consegue il dottorato di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica. Ha svolto attività di ricerca sui temi della trasformazione delle aree industriali dismesse in Italia. Presso il Politecnico di Torino e l'Università di Trento ha tenuto corsi di Storia dell’architettura contemporanea e di Storia della critica e della letteratura architettonica. Collabora a “Il Giornale dell’Architettura” dalla sua fondazione nel 2002; dal 2004 ne è caporedattore e dal 2015 al 2024 è direttore. Oltre a saggi critici e storici, ha pubblicato libri e ha seguito il coordinamento scientifico-redazionale del "Dizionario dell’architettura del XX secolo" per l'Istituto dell’Enciclopedia Italiana (2003). Con "Cantieri d'alta quota. Breve storia della costruzione dei rifugi sulle Alpi" (2011, tradotto in francese e tedesco a cura del Club Alpino Svizzero nel 2014), primo studio sistematico sul tema, unisce l'interesse per la storia dell'architettura con la passione da sempre coltivata verso l’alpinismo (ha salito tutte le 82 vette delle Alpi sopra i 4000 metri). Nel 2012 ha fondato e da allora presiede l'associazione culturale Cantieri d'alta quota

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Last modified: 10 Luglio 2015