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Written by: Interviste

Joseph Grima: cambiare direttore fa bene

Con marzo si è chiusa la serie – programmata – degli undici numeri di «Domus» diretti da Alessandro Mendini. Il neo-direttore Joseph Grima, che negli ultimi 11 mesi ha curato per la rivista i contenuti legati al web e ai new media, racconta i propri punti di partenza, riflessi nei numeri di aprile e maggio da indici che distribuiscono l’attenzione tra progetti a scala urbana e progetti d’interni, design e produzione, storia e politica. Nel numero di giugno, tra gli altri temi, il Soumaya Museum di Fernando Romero/FREE a Città del Messico, l’architettura open-source di Facebook, un saggio sul Thinkering di Paola Antonelli.

La sua «Domus» è la prima che si confronta con il web e mi pare lo faccia sulla linea «onnivora» iniziata da Boeri. Oltre a esaltare la fisicità del l’oggetto-rivista, ha altre strategie per evitare la prevalenza del web? O sono solo tattiche e l’assunto è che il website presto o tardi assorbirà tutto?
Credo che questa presunta dicotomia carta/web sia uno dei grandi errori concettuali dell’editoria contemporanea. «Domus» è un ecosistema editoriale, una piattaforma multicanale d’indagine e dibattito intorno al design e all’architettura, e sarebbe un errore dare per scontato che la crescita del sito avvenga a spese del cartaceo. Anzi, sono convinto che non essere sul web sarebbe un grave svantaggio per la carta stessa. E c’è un altro fattore contrariamente a quanto spesso si dice, credo che i giovani apprezzino ancora l’oggetto-rivista. Diffiderebbero tuttavia di una rivista che diffida del web. Cerchiamo di vedere il web non come una minaccia ma come un’ opportunità di raggiungere un pubblico globale; è un formidabile strumento d’informazione che può sia erodere che accrescere l’importanza delle testate cartacee. La direzione di Boeri ha proposto l’idea, molto imitata in seguito, della rivista come laboratorio di ricerca sullo spazio contemporaneo. L’atteggiamento onnivoro credo sia l’evoluzione di una qualità che fa parte del Dna di «Domus» da sempre: l’abilità di allargare lo sguardo critico oltre i confini stretti dell’architettura. Nel dopoguerra, ad esempio, nel periodo della ricostruzione e del boom, ci sono in «Domus» bellissime pubblicazioni di ruspe, trattori, macchinari industriali pesanti, velivoli e oggetti tecnici di ogni tipo che non c’entrano con il design e l’architettura in senso stretto, ma che sono tuttavia straordinarie fonti di ispirazione, un po’ come gli aerei di Le Corbusier o i gasometri dei Becher. «Domus» è da sempre una rivista d’ispirazione e interpretazione, più che di semplice notizia, e la nostra ambizione è di continuare su quella linea, con questa curiosità e capacità di vedere in tutto ispirazione per l’architettura e il design.

«Domus» è stata, anche, un catalogo di soluzioni a problemi specifici (come fare una sedia, come fare una casa..). Come si confronta con questa tradizione? Quanto le interessa far circolare soluzioni e quanto suggestioni?
Il rapporto cognitivo fra noi e gli oggetti che possediamo e utilizziamo oggi è molto diverso anche solo da 30 anni fa, e la distanza che separa chi progetta, chi produce e chi utilizza gli oggetti è cresciuta esponenzialmente, sia fisicamente che concettualmente, negli 83 anni di vita di «Domus». Basta pensare a quell’icona del contemporaneo che è l’iPhone: metà di noi l’ha in tasca, ma non abbiamo la più vaga idea di come funzioni. È un insieme di sistemi non solo complessi ma anche chiusi: l’iPhone non è un oggetto che puoi smontare per capire come funziona. Ma migliaia di progettisti (inclusi noi a «Domus», con le guide all’architettura delle città) l’hanno adattato a usi impensati. Nel numero di giugno indaghiamo il movimento emergente del design e l’architettura open source, resa possibile in gran parte proprio da questa ubiquità tecnologica. Nella sua rubrica mensile, «States of Design», Paola Antonelli decostruisce il thinkering, un neo-movimento del design che si esprime attraverso l’appropriazione e la modifica, l’adattamento e l’hacking di oggetti e tecnologie sofisticatissimi eppure molto comuni. Forse sono queste le declinazioni contemporanee della tradizione di «Domus» come catalogo di soluzioni a problemi specifici. I problemi e le opportunità che il progettista deve affrontare oggi sono profondamente diverse anche solo da 20 anni fa.

Mendini ha sottotitolato «Nuova utopia» i suoi 11 numeri. Le ultime due copertine portano invece un elenco di contenuti e autori. Sembra una presentazione più riformista che non utopista…
Il mio rispetto per Mendini è enorme: è una delle più grandi menti che l’Italia abbia prodotto negli ultimi cento anni, e la sua «Domus» è stata una grande dimostrazione di abilità intellettuale nell’affrontare un tema difficile, che nelle mani di chiunque altro poteva cadere facilmente nella banalità. Sicuramente io non ne sarei stato capace. A me interessa qualcosa di diverso: credo che in questo momento l’architettura non abbia bisogno di un altro manifesto che proponga obiettivi astratti o  irraggiungibili. Ci sono tantissime problematiche reali e impellenti (fra cui la marginalizzazione dell’architetto dalla realtà, con il rischio di diventare una sorta di «decoratore urbano») evidenti nel paesaggio che ci circonda. Personalmente, tendo più verso il neorealismo che verso l’utopia, e non ho sentito l’esigenza di «targare» questa «Domus» con uno slogan. Soprattutto ritengo che in questo momento di cambiamento epocale delle città, dei paesaggi, dell’emergere di nuove culture, la realtà che ci circonda è molto spesso più ricca di ispirazioni della teoria. Basta lasciare la porta aperta all’inaspettato.

Nello scegliere i progetti da pubblicare, ha dei criteri costanti, in qualche modo disciplinari, o è l’agenda di ogni numero a dettare l’interesse per un progetto?
Non ci sono regole, ma cerchiamo di privilegiare sopratutto progetti coraggiosi e innovativi, a volte anche quando siamo critici rispetto alle scelte progettuali o urbanistiche del progettista. Abbiamo un approccio abbastanza curatoriale all’assemblaggio di ogni numero: insieme a Roberto Zancan, il nuovo vicedirettore arrivato con il numero di giugno, cerchiamo di dare vita a una sequenzialità in cui ci siano riverberazioni e risonanze concettuali, o anche semplicemente estetiche fra i progetti pubblicati. Una delle cose più noiose è una rivista in cui i contenuti sembrano buttati dentro arbitrariamente. D’altra parte, rischiano di esserlo anche le riviste tematiche o monografiche. A metà fra queste due formule un po’ stantie forse si trova qualcosa d’interessante.

Autore

  • Manfredo di Robilant

    Architetto e storico dell’architettura, è stato associato alla ricerca della XIV Biennale di architettura di Venezia, per cui ha curato i libri su ceiling e window (Marsilio, Rizzoli International, 2014). Ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dell’architettura presso il Politecnico di Torino ed è stato visiting scholar al Canadian Centre for Architecture di Montréal. Insegna alla Domus Academy di Milano e ha tenuto lezioni alla Washington University di St. Louis, all’Institut für Kunstwissenschaft di Brema, allo Strelka Institute di Mosca, alla Harvard GSD. Ha scritto per «Il Giornale dell’Architettura», di cui è stato assistente alla direzione, «Arch+», «Baumeister», «Domus», «World Architecture». Condivide con Giovanni Durbiano lo studio DAR-architettura.

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Last modified: 10 Luglio 2015