Questo potrebbe essere un editoriale in bianco, con un Post-it che rinvia a un anno fa. Allora, in un commento del Giornale sui test di ammissione ai corsi in Architettura analoghi a quelli ora riproposti, si suggerivano riflessioni che oggi sembrano fare il verso a una delle canzoni più famose di Bob Dylan, Blowing in the wind. Questo non è lunico terreno su cui si può avanzare una così mesta constatazione sul fare, non solo governativo.
Purtroppo però altri fatti hanno reso questinerzia più pericolosa. Trasformando un problema reale, la necessità di un rinnovamento profondo delle regole che governano tutta la vita dellUniversità, in una retorica, si stanno arrecando danni pesanti alla stessa speranza di futuro di una società che ha ununica ricchezza: il suo capitale umano, immateriale per usare un termine inquietante.
Lo si è fatto rendendo quasi ridicola la pretesa di un cambiamento.
Ecco solo alcuni esempi.
Se da un lato si è agito per incentivare il pensionamento di una generazione (quella dei «precari stabilizzati» degli anni settanta), dallaltra si è bloccata in ingresso qualsiasi mobilità, prospettando unulteriore precarietà per chi volesse scegliere la strada della ricerca, ma anche un quasi immobilismo per chi dovrebbe prendere in mano la futura Università: i concorsi, per intendersi più facilmente. La realtà oggi è di unUniversità che si va restringendo, senza rinnovarsi. La prima conseguenza è quella di offrire, a una domanda di formazione che comunque esiste, lunica strettoia di unUniversità privata.
Se da un lato si è verificato luso distorto che nellUniversità molti hanno fatto dei concorsi e delle possibilità offerte dal tanto vituperato 3+2 per proclamare la necessità di un profondo cambiamento, dallaltro si sono gettate le basi per un ulteriore restringimento di chi potrà decidere quasi ogni cosa. E non è solo la questione dellaccentramento dei poteri in una governance assunta a idolo, purtroppo troppo simile a quello che veneravano gli ebrei nel deserto, quando Mosé era sul monte Sinai. In assenza di mobilità, il numero dei professori ordinari si restringerà fortemente in pochissimi anni: e sono gli unici che potranno decidere in qualsiasi concorso. Con una postilla non secondaria. Per combattere un problema indubbiamente grave si è ricorsi a un sorteggio indifferenziato che si è dimenticato dellesperienza pregressa, vizio molto ricorrente nella cultura di oggi. Bastava uno studente alle prime armi con gli elementi di statistica per far balenare nella mente del nostro solerte decisore il rischio che lestrazione in gruppi cresciuti sulle clientele avrebbe quasi necessariamente riprodotto le stesse clientele.
Se da un lato sinvoca la meritocrazia e ci si colloca dalla parte degli studenti, nella pratica succede che, restringendo drasticamente il numero dei docenti ed escludendo i ricercatori da ogni futuro, si mette lUniversità nella condizione di affidare un corso quasi al primo venuto. Non solo, ma si riducono sino al 50% le borse di studio che possono rendere laccesso allUniversità un po meno selettivo sul censo, come si sarebbe detto a fine xix secolo. Anche qui con una postilla non secondaria. Chi ha da perdere con corsi che tornano a rapporti tra docenti e studenti da anni settanta, con docenti precari e mal pagati, che necessariamente dovranno fare il doppio lavoro, sempre che se lo possano permettere? Certamente gli studenti e le famiglie, ulteriormente colpiti anche dalla riduzione della qualità della didattica. Ma, diciamocelo con franchezza, a chi importa davvero della formazione, per non dire della qualità della didattica? In fondo, ed è il retropensiero più inquietante di questa già inquietante situazione, lItalia è il paese del pezzo di carta, radice di molti qualunquismi che rendono persino ottimista la scena finale dei Sei personaggi in cerca dautore.
Ma forse la tabella che il Giornale si ostina a pubblicare, a ben ripensarci, ha ancora qualcosa da dire.
Invece di agire con la retorica della meritocrazia e con la realtà di una politica che taglia indiscriminatamente (salvo ovviamente la portentosa cifra del 7%, futuro 10%, assegnata su basi che non si discutono, come è giusto in una democrazia autoritaria quale quella che il disegno di legge Gelmini configura), basterebbe porre lasticella di una credibile capacità di attrazione delle offerte formative al punto in cui almeno i posti messi a disposizione siano minimamente selezionati. E magari usando una parte delle risorse per rendere reale e competitivo con gli altri paesi civili il diritto allo studio, intervenendo sulla mobilità, sulledilizia universitaria, sui servizi, sullintegrazione autentica di quanti vogliano venire a studiare in Italia. E nel farlo riaprendo una finestra, magari piccola, di dibattito sui profili professionali che sono mutati tanto profondamente, sulla formazione permanente, sulle metodologie didattiche, sul perché stato in Italia il 3+2 è, salvo rarissime eccezioni, uno degli esempi più tristi del trasformismo non certo e solo dei docenti, ma del mondo delle imprese, degli Ordini professionali e, ultima ma certo non per la corresponsabilità, della stessa pubblica amministrazione.
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