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Written by: Interviste

Daniel Libeskind: I miei musei devono disturbare

Immaginiamo che i suoi committenti la preghino di non progettare scatole.
Assolutamente sì: i miei committenti mi richiedono un linguaggio. L’architettura dei musei contemporanei deve anche disturbare; l’idea dovrebbe essere radicale. I direttori dei musei e i loro curatori non vogliono spazi regolari, hanno necessità di mostrare la varietà dell’arte contemporanea e rispondere all’eterogeneità comporta la costruzione di spazi fluidi, da abitare e da scoprire progressivamente (pensate al Guggenheim di New York). D’altra parte il landscape è esattamente come l’arte contemporanea, costruito. Anche in Lituania (nel museo Hermitage-Guggenheim che sto realizzando a Vilnius), il rapporto che cerco tra il tema del museo e il paesaggio, non può prescindere dallo scoprire i mondi che possediamo nella mente, perché il paesaggio non è fisico ma mentale. Soprattutto per un museo l’itinerario si configura come un viaggio mentale sollecitato da impulsi sensoriali.

Tra il 1986 e il 1989 ha fondato e diretto a Milano un laboratorio didattico di progettazione, «Architecture Intermondium». Il soggiorno milanese le dà modo di frequentare l’architetto italiano Aldo Rossi che lui stesso ha poi definito «partner di un dialogo silenzioso». Però all’inizio degli anni novanta lei scappa da questo paese («un paese che amo ma dove non è possibile fare architettura», disse) e va a lavorare come senior scholar per la Paul Getty Foundation.
Tra il 1989 e il 1990 è cambiato qualcosa nel mondo dell’architettura, non solo in Italia. Credo di aver incontrato per la prima volta Aldo Rossi a New York. Ho trascorso con lui notti e giorni interi: ci ha legati l’idea che l’architettura sia molto di più di quanto appare (linguaggio e disegno per esempio).

Da qualche anno è ritornato a Milano, una città tra le prime cinque al mondo per numero di musei. Feudo di Salvatore Ligresti, City Life è il più grande intervento di riqualificazione della città: con la sua torre curva (a destinazione per ora mista, residenziale e alberghiera) e soprattutto con il Museo di arte contemporanea (Mac), sarà un punto importante per la ricandidatura dell’attuale amministrazione?
City Life, ovvero la riqualificazione della sede storica dell’ex Fiera campionaria, è un progetto centrale per Milano, per posizione e funzioni: residenza, lavoro, cultura con il Mac. Quello dei musei non è un problema di numeri ma di forza mediatica: Milano ha musei in quantità, artisti e ottimi designer, ma non ha un luogo che li rappresenta.

Gli anni novanta sono stati anni di musei; e quelli progettati da lei non sono pochi: Museo ebraico a Berlino (1989-1999), Casa Felix Nussbaum a Osnabrück (1995-1999), Danish Jewish Museum di Copenaghen (1996- 2003), Imperial War Museum di Manchester (1997-2002), Denver Art Museum (2000-2006), Royal Ontario Museum a Toronto ( 2002-2007). Ma lei è ancora di più un architetto di memorials: il simbolismo delle sue opere, le fa percepire come monumenti della memoria.
È vero, perché per me il museo è memoria (altrimenti diventa solo un altro museo): necessita di memoria come dei materiali di cui è fatto. Mi piace lavorare sull’interpretazione della memoria (come Giordano Bruno con le sue «immagini aggiunte» nell’Ars memoriae) per rappresentarne i diversi tipi.

Gli interni dei suoi musei sono spazi che parlano se lasciati vuoti. L’allestimento, soprattutto laddove sono esposti oggetti che impongono un percorso narrativo, è spesso percepito come un’azione aggiunta, che non riesce a integrarsi alla composizione architettonica.
Non mi occupo dell’allestimento. È una disciplina che è cambiata moltissimo in questi ultimi decenni. Penso che ci si debba distaccare dal progetto architettonico e guardare all’allestimento come a un insieme di dispositivi destinati a mutare nel corso del tempo. Al Guggenheim di New York ci sono voluti molti anni prima che si mettessero in discussione gli allestimenti di Frank Lloyd Wright. A volte è opportuno estraniarsi e riflettere su cosa sia meglio cambiare.

Quando s’iniziava a pensare alla Pechino olimpica lei disse: «Non costruiamo a Pechino perché non progettiamo per i regimi».
Sì, ma i dittatori cambiano e i sistemi non sono nè bianchi nè neri. L’importante è fare un’architettura dove le persone possano partecipare sempre più numerose, alla costruzione, nello spazio (per questo non può mancare una big lobby all’ingresso in un museo contemporaneo). L’architettura dei regimi è piena di errori proprio perchè non è il frutto di opinioni e punti di vista differenti tra loro. E i musei in particolare, nell’epoca del capitalismo, dovrebbero, oltre a rendere economicamente, generare opinioni e interpretazioni diverse, visioni future. L’architettura deve ancora conquistare la sua autonomia dai governi: solo così in futuro potremo leggerla.

Lei dunque invita il mondo dell’architettura a emanciparsi dai governi ma poi si occupa soprattutto di musei, che dovrebbero essere gli emblemi del potere istituzionale.
Dalla fine degli anni ottanta, il trauma rimane il centro della mia opera, come si può capire anche dall’ampliamento del Museo di storia militare che sto seguendo a Dresda. Certo, per trauma, non intendo solo il vuoto generato dai genocidi e dalle distruzioni, ma un momento di presa di coscienza rispetto a qualcosa che non è possibile comunicare esplicitamente.

Gli interventi di ampliamento recenti costituiscono un aspetto centrale della museografia contemporanea. Quali sinergie s’innestano nella ricerca di un dialogo con i maestri? A Denver, per esempio, quale relazione s’instaura tra la cortina ermetica progettata da Gio Ponti e l’esplosione volumetrica della nuova sede dell’Art Museum?
Le architetture di Ponti sono state molto importanti nella mia formazione, soprattutto durante i soggiorni a Milano, dove si avverte l’eco della sua esperienza in molti brani della città. L’intervento di Ponti per il Denver Art Museum è tuttora considerato molto radicale nel paesaggio architettonico americano. Non si vedono architetture simili a New York o a Chicago. Ho ascoltato l’opera di Ponti, e come lui ho subìto il fascino delle Rocky Mountains cercando, nelle aperture a feritoia e nello studio di rapporti luministici del titanio, un dialogo con la sua parete-fortezza cangiante.

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Last modified: 13 Luglio 2015