Contra concorsi. Ecco, questo articolo potrebbe iniziare così. Contro la marea melliflua di pseudo-opportunità che invade lo spazio mentale dellaspirante-giovane leva-emergente designer. Ma è possibile pensare che, in unepoca di bulimica produzione di oggetti e di sfrenata crescita del mercato, unazienda che vuole sperimentare un sano, reale, concreto processo di rinnovamento della sua offerta di prodotti e di servizi si affidi a un concorso?
Si tratta di un processo assurdo che nessun individuo od organizzazione sana attuerebbe mai (il riferimento, ahimè, è anche alla triste litania dei concorsi pubblici). A meno che il processo non generi una dimensione pubblica che renda evidente la qualità e le motivazioni della selezione (oltre ad ampliarne la base in modo da renderla significativa) e che impegni il soggetto realizzatore a un serio (e ricco di rischio, investimenti, tempo, passione e intelligenza) processo di reale sviluppo dei risultati.
Scegliereste qualcosa che riguarda aspetti importanti della vostra vita personale in questo modo? Non credo.
Le imprese usano questo mezzo per fare una parodia di un processo di sviluppo prodotto-servizio a fini comunicativi: per potenziare il proprio brand con il dire che fanno ricerca.
Si tratta di una sottile ambiguità che sta a cavallo tra la questione dellinnovazione e di quello che gli anglosassoni chiamano procurement. Scegliere un progettista, fare un vero investimento in tempo e denaro costringe davvero unazienda a un committment, un impegno. Reale. E questo garantisce davvero a un progettista un possibile percorso di sviluppo del suo progetto (e della sua carriera).
Il concorso invece apparenta gli aspiranti designer a un popolo di anonimi in cui ogni tanto qualcuno viene estratto a sorte per rappresentare quello che ce lha fatta.
Siamo sempre alle solite. Lidea della competenza progettuale è come un Gratta&vinci.
E allora, se concorso deve essere, meglio la formula aggiornata e pimpante di Designboom (www.designboom.com) di Birgit Lohmann, dove uno staff competente e internazionale, che lavora con una community di progettisti significativa, gestisce concorsi e giurie (prestigiose, di qualità, internazionali, non ridicole camarille nostrane) garantendo risultati spesso interessanti. In questo caso è chiaro che è la comunicazione della qualità del progetto e del brand, dellexpertise del progettista che la fa da padrone.
Il fattore motivante per i designer è la possibilità di essere riconosciuti in una comunità di pari, allinterno di una visione di scambi e influenze peer to peer che garantisce visibilità, autorità, relazioni. Il contrario della logica tradizionale e invecchiata che troviamo in un altro caso: il premio Renato Brunetta, per i giovani talenti di design (www.premiorenatobrunetta.it), in cui il nostro ministro, nonché appassionato designer, fa da mallevadore alla finora inespressa creatività dei designer. Alla fine qui vince il deja vu: un premio consistente in un argent de poche sommato a vaghe promesse (dal sito del concorso, alla voce Premi, si legge «Il vincitore riceverà una borsa di studio del valore di euro 5.000. [
] Il vincitore sarà invitato inoltre, se la giuria lo riterrà opportuno, presso lazienda Midj per approfondire con lufficio tecnico le problematiche di sviluppo e industrializzazione del suo progetto in vista di una possibile messa in produzione»), sottoscritte però da una qualificata e importante giuria. Si premia dunque, ma forse non si realizza. Ma non sarebbe meglio che il ministro, imitando il buon esempio di tanti governi europei, scegliesse direttamente e sotto la propria, personale, responsabilità, e pagando il design davvero come una competenza professionale non precaria e casuale?
Cosi facendo darebbe un segnale importante di come il design abiliti davvero, come ben rappresentato dal caso inglese, processi dinnovazione profondi nella pubblica amministrazione (così come nelle imprese), invece di pensare al design come un produttore di stile nella grande e consumata officina dellinquinamento segnico e materiale contemporaneo.
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