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Carlo OlmoWritten by: Forum

Chi vuole distruggere l’Università?

Quel che più colpisce leggendo il ddl uscito dalla commissione Cultura della Camera (come, per altro, i tanti articoli dei quotidiani che ne hanno accompagnato l’iter) è la purtroppo comune mancanza di prospettive. Non si tratta solo della sorpresa di vedere i maggiori soggetti interessati a una formazione la più qualitativa e a una ricerca la più competitiva possibili (lo Stato nelle sue diverse istituzioni, la Confindustria, le associazioni professionali…) sposare logiche fondate soprattutto sull’impoverimento di futuro, se è lecita una metafora, in un contesto così povero culturalmente. Ancor più colpisce l’interesse, quasi maniacale, verso un problema che dovrebbe essere l’esito di strategie, ma anche di una scelta sui valori costitutivi della nuova Università: le forme di governo. Quasi che la governance possa essere la pietra filosofale di un’assenza, persino di dibattito, sui fondamenti di un sistema che si vorrebbe nuovo. Tre piccoli esempi, tra i tanti.
Sulla formazione. Oggi il nodo è chi e come formiamo. Chi significa se formiamo liberi professionisti, funzionari di un nuovo Stato – di cui c’è un bisogno quasi esistenziale -, tutti imprenditori… Come significa invece che peso diamo a una formazione che garantisca la capacità del singolo di aggiornare continuamente la sua «cassetta degli attrezzi» e a un’altra più legata invece al «mercato», al trasferimento delle conoscenze. Senza falsi manicheismi, possibilmente. Invece il ddl, e ancor più la stampa quotidiana, si dilettano a discutere di forme di governo in cui sparisce proprio la sede, comunque si chiami, dell’elaborazione di progetti pedagogici e non solo didattici, formativi e non solo professionali, immaginando, quasi come per le stregonerie medievali, che questi si possano realizzare mischiando pizzichi, un po’ misteriosi, di dipartimenti.
Sulla ricerca. Il problema, non certo solo italiano, è oggi quello di riconoscere quali sono i nuclei permanenti della formazione alla ricerca (disciplinari o meno, questa è una bella discussione che andrebbe avviata) e quali sono i problemi che richiedono la formazione (sicuramente interdisciplinare ma anche a tempo) di strutture in grado di misurarsi con le complessità che quasi tutti i problemi importanti che si hanno davanti implicano. E con questo restituire all’Università il suo doppio ruolo di custodia e arricchimento delle basi del sapere, ma anche di struttura civilmente e socialmente impegnata nell’affrontare i problemi della società in cui vive. La discussione, e quanto viene proposto all’opinione pubblica, sono invece un appassionato accapigliarsi sull’aggregazione di strutture organizzative, la cui unica base sono i numeri (quasi sempre di docenti).
Con una postilla non marginale. Nel 1999, davanti all’ingovernabilità di strutture troppo grandi e alle pratiche, non certo virtuose, che le strutture troppo grandi inducono nel formare i processi decisonali (quelli che in termini dispregiativi si chiamano «politiche di corridoio»), fu presa la risoluzione di favorire le autonomie e il decentramento. Oggi, senza una valutazione non scandalistica su quel processo, si fa una marcia indietro che non si preoccupa neanche di ripensare le ragioni di quella scelta, non dico le forme per evitare che si riproducano quelle condizioni. Se non evocando la governance, quasi come un Kharma.
Ultimo e non minore problema. Di fronte al vero malcostume accademico che ha, spesso, utilizzato i concorsi locali per selezionare a ogni livello ricercatori e docenti non certo per merito, si sceglie la via dei concorsi nazionali e del sorteggio integrale. Ora, anche uno studente del primo anno di informatica potrebbe spiegare che se gli insiemi entro cui i sorteggi avvengono si sono formati secondo logiche non meritocratiche, l’esito non potrà che premiare proprio coloro che sono stati a loro volta premiati dal sistema clientelare precedente. Il sorteggio integrale è una rinuncia alla responsabilità. In paesi anche non lontani da noi, chi decide – persino sull’ammissione ai fondi di ricerca – sono i professori che la comunità scientifica riconosce, in maniera trasparente e su base assolutamente meritocratica, come i suoi migliori, integrati spesso da professori stranieri scelti con gli stessi criteri. Ma certo bisogna scegliere e le scelte comportano assunzione di responsabilità.
Oggi, di fronte a processi di aggregazione tra facoltà e dipartimenti, nuovi statuti, abbozzati o approvati, che procedono senza aver sfiorato anche solo i problemi che si è cercato di mettere in luce, davvero ci si domanda se si vuole distruggere non solo la scuola pubblica, ma la scuola tout court. Magari pensando che, in fondo, il modello Radio Elettra è ancora il migliore, certo imbellettato dall’e-learning magari dall’IPad.

Autore

  • Carlo Olmo

    Nato a Canale (Cuneo) nel 1944, è storico dell'architettura e della città contemporanee. E' stato preside della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino dal 2000 al 2007, dove ha svolto attività didattica dal 1972. Ha insegnato all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, al Mit di Boston e in altre università straniere. Autore di numerosi saggi e testi, ha curato la pubblicazione del "Dizionario dell'architettura del XX secolo" (Allemandi/Treccani, 1993-2003) e nel 2002 ha fondato «Il Giornale dell'Architettura», che ha diretto fino al 2014. Tra i suoi principali testi: "Le Corbusier e «L’Esprit Nouveau»" (Einaudi, 1975; con R. Gabetti), "La città industriale: protagonisti e scenari" (Einaudi, 1980), "Alle radici dell'architettura contemporanea" (Einaudi, 1989; con R. Gabetti), "Le esposizioni universali" (Allemandi, 1990; con L. Aimone), "La città e le sue storie" (Einaudi, 1995; con B. Lepetit), "Architettura e Novecento" (Donzelli, 2010), "Architettura e storia" (Donzelli, 2013), "La Villa Savoye. Icona, rovina, restauro" (Donzelli, 2016; con S. Caccia), "Città e democrazia" (Donzelli, 2018), "Progetto e racconto" (Donzelli, 2020)

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Last modified: 17 Luglio 2015