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Written by: Forum

Quale velocità, dove e per chi?

L’Italia corre di più grazie all’Alta velocità ferroviaria: Milano-Roma in tre ore o meno, risparmi di mezz’ora sulla Roma-Napoli e sulla Milano-Torino. La linea Milano-Roma-Napoli collega i tre maggiori centri urbani del paese, ed è in qualche modo la spina dorsale d’Italia, come lo fu a suo tempo la Parigi-Lione-Marsiglia. Sarà ragionevolmente ben utilizzata, e comunque un gran pezzo c’era già, la Firenze-Roma.
Ma accanto a queste luci ci sono pesanti ombre. I costi sono risultati non solo tripli di quelli previsti, ma anche tripli di quelli di linee analoghe (per acclività, urbanizzazione ecc.) di altri paesi europei, come ha scritto addirittura «Il Sole24Ore», fonte da sempre molto favorevole all’opera. I motivi sono ovvi: in primo luogo nessuna gara di affidamento, ma soprattutto quello che gli economisti chiamano un residual claimant: tutte le parti coinvolte sapevano (e sanno ancora) che lo Stato avrebbe pagato comunque tutto. Altro che mani nelle tasche degli italiani! Qui si tratta di badili, più che di mani….
Ma non tutti piangono, ovviamente. Non certo i grandi costruttori: quei denari rafforzano una lobby già molto influente. Poi ci sono problemi di politica industriale: il settore del cemento (75% dei costi) non ha contenuti particolarmente innovativi ed è altamente «energivoro». Alcune stime dicono che ci vorranno 18 anni di vantaggi per i minori consumi di CO2 in esercizio per compensare quello emesso nella costruzione. Un’analisi onesta dei presunti benefici ambientali del treno ne dovrebbe tenere conto. Infine gli aspetti sociali: una buona parte degli utenti che prenderanno l’AV è gente di reddito medio alto. L’Alta velocità per loro c’era già e non costava nulla allo Stato: si chiama aeroplano.
Ma, si ripete, la dorsale sarà ben utilizzata (anche se i numeri sulla tratta Roma-Napoli, sono per ora deludenti). Il disastro è che si prosegue, con linee destinate ad atroce sottoutilizzazione: la Milano-Torino è costata 7,8 miliardi, e vi passeranno 7 coppie giornaliere di treni AV, che potranno anche crescere nel tempo (molti ne dubitano), ma la capacità aggiuntiva è di 330 treni al giorno. Di linee con non troppo dissimili prospettive di traffico sul tavolo ce ne sono moltissime: la Milano-Genova, la Milano-Venezia-Trieste (il traffico prevalente qui è di breve distanza, e i benefici della velocità ridotti), la Salerno-Bari ecc.
E il resto dei servizi ferroviari? Per ora, i treni locali sembrano nel complesso danneggiati, nonostante un aumento della quantità di servizi in alcune regioni. Esattamente il contrario di quanto a suo tempo sostenuto da Ferrovie dello Stato, che cioè l’AV avrebbe migliorato i servizi pendolari, a motivo dell’aumento della capacità complessiva. Non ci voleva molto a prevedere che era un argomento di comodo: i problemi di capacità sono nei nodi e non sulle linee (dichiarazioni ripetute da Mauro Moretti stesso, amministratore delegato di FS). Ma quei pendolari non sono i veri pendolari: è un equivoco generato dalla «vocalità mediatica» dei pendolari ferroviari, che sono una piccola minoranza del totale. Dipende da come sono conteggiati, ma non superano il 10% del totale dei pendolari italiani; una quota simile usa l’autobus e l’assoluta maggioranza viaggia in automobile.
Ora, per definizione i servizi ferroviari sono destinati a quella minoranza che si trova a risiedere e lavorare in località ragionevolmente vicine a stazioni ferroviarie. Certamente dunque non una minoranza particolarmente svantaggiata e che inoltre paga con il biglietto una piccola quota dei costi di produzione del servizio (abbiamo le tariffe più basse d’Europa). Soffre certo di servizi di pessima qualità, e questo non sembra giustificabile, ma la maggioranza dei pendolari che per ragioni localizzative non può che servirsi della macchina, oltre che avere pessimi servizi (strade congestionate), paga cifre altissime con la tassa sui carburanti, e non ha nemmeno la possibilità tecnica di organizzarsi per protestare.
Anche la «mistica urbanistica» che punta a ridensificare gli insediamenti intorno alla ferrovia sembra difficilmente difendibile: si pensi al mercato del lavoro, sempre meno tayloristico e sempre più mobile nello spazio e nel tempo, al sistema della grande distribuzione che taglia i costi dei prodotti e si appoggia al trasporto su gomma, ma soprattutto alla «fuga dalla rendita»: per definizione, se il territorio si caratterizza da accessibilità molto differenziate (quelle generate appunto dai sistemi ferroviari), la rendita «cattura» una buona quota dei benefici dell’accessibilità, espellendo i redditi inferiori all’esterno.
La riprova del contenuto strutturale dell’attuale tendenza insediativa sta in una «leggenda metropolitana»: vi sarebbe stata in passato una politica in favore della gomma. La verità è l’esatto contrario: la ripartizione modale attuale tra ferro e gomma è avvenuta nonostante un’altissima pressione fiscale su quest’ultima e un fiume di denaro pubblico trasferito ai sistemi su ferro.
Che fare dunque? Prima di tutto evitare di spendere fiumi di denaro pubblico in investimenti ferroviari di utilità rapidamente decrescente (si veda anche il recente studio di Cristina Treu e Giuseppe Russo sul tema, La via delle merci, IlSole24Ore editore) e in secondo luogo si punti decisamente a ridurre l’inquiœnamento e la pericolosità generati dal trasporto su gomma, accelerando l’innovazione tecnologica del settore, che avrebbe anche un significato di politica industriale ben più favorevole del cemento.
Per le infrastrutture infine ci si ricordi che il 75% dei traffici merci e passeggeri si collocano in ambito regionale, con costi per famiglie, imprese e ambiente assai più rilevanti di quelli relativi ai (minoritari) traffici di lunga distanza. Se occorre maggior velocità per passeggeri e merci, e se vogliamo competere in produttività, questo è l’ambito sul quale concentrare gli investimenti.

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Last modified: 17 Luglio 2015