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Danilo Udovicki-SelbWritten by: Progetti

Museo degli Indiani d’America +5

In qualità di senior fellow del Center for Advanced Study in the Visual Arts della National Gallery of Art di Washington, durante la primavera del 2004 ho avuto l’opportunità di seguire, con sconcerto dal mio ufficio, la costruzione del futuro Smithsonian’s National Museum of the American Indian (Nmai). Inutile dire che non avevo particolare interesse a visitarlo, una volta ultimato. Quando ho dovuto farlo per scrivere questo articolo, ho appurato che i miei peggiori timori erano fondati. Affacciato sul Mall, di fronte alla cupola della sede del Congresso, che s’ispira a San Pietro (che fu, come sappiamo, in parte finanziata con i gioielli d’oro fusi degli Inca), è coronato da una cupola che ricorda invece quella del Pantheon dell’antica Roma e che ha involontariamente apposto per sempre il marchio eurocentrico sulle culture che il museo finge goffamente di commemorare.
Dopo essere stati vittime per cinque secoli del più vasto genocidio della storia umana ed essere stati rinchiusi nelle terre aride delle riserve, nel 2004 gli indiani d’America venivano finalmente collocati in un museo, ben sorvegliati dalle alture del Campidoglio dai rappresentanti della nazione aliena che ne causarono la storica disgrazia. Si calcola che, dall’arrivo dei pellegrini a Plymouth Rock, solo negli Stati Uniti sparirono quindici milioni di nativi, gran parte durante le «guerre indiane» dell’Ottocento. Come dice Clyde H. Bellecourt, direttore dell’American Indian Movement (Aim), «Oltre a esporre la bella cultura delle popolazioni native, il museo avrebbe dovuto parlare dell’olocausto degli indiani d’America». Le parole spesso ripetute del compiaciuto primo direttore, il ricco avvocato di discendenza indiana southern cheyenne, W. Richard West jr. «Ci siamo ancora!» restano sospese nel vuoto, poiché il museo non riesce a dire perché le popolazioni indigene potrebbero non esserci più. E malgrado le proteste dell’Aim in cinque anni nulla è cambiato. Il museo perpetua, con grafici teatrali, il mito ostinatamente insegnato ai bambini americani secondo cui la massiccia scomparsa di centinaia di nazioni che popolavano le Americhe si deve alle epidemie portate dai coloni bianchi. Va da sé che altrettanto assente è ogni allusione alla rappresentazione distorta, anzi, alla demonizzazione, delle popolazioni indiane nei cosiddetti film «Western».
Tutto appare ancora più sorprendente poiché, per limitare l’alienazione antropologica, troppo frequente in passato, l’impostazione museale è frutto del contributo di ventiquattro comunità tribali tra Stati Uniti, Canada e America Latina. L’errore è stato pensare che questo bastasse per creare un autentico museo indiano. Concedere troppo al populismo produce insidie pericolose che possono indurci a dire il contrario di quanto intendevamo. E tutto questo per circa duecento milioni di dollari, gran parte dei quali avrebbero potuto migliorare la sorte delle riserve i cui abitanti non avranno mai i mezzi per venire a vedere il «loro» museo di Washington (non dimentichiamo che il direttore West jr. ha scandalosamente speso per i suoi viaggi 250.000 dollari di denaro pubblico!).
Quello che rimane anche cinque anni dopo l’inaugurazione non è un museo di storia. La sua essenza è astorica. Non è nemmeno un museo d’arte. È una specie di museo dell’«armonia» new age, un luogo di «unità», «spiritualità» e «riconciliazione» (anche se non ci viene mai detto esattamente riconciliazione su cosa). Il messaggio strombazzato che il museo ancora comunica è: «vedete, siamo sopravvissuti; siamo indiani tutti insieme; siamo alleati e siamo un solo popolo», senza aggiungere nulla di utile sul passato degli indiani o sulle realtà contemporanee delle riserve e dei ghetti. Lo stesso edificio (progettato da Douglas Cardinal, un altro indiano di origine Blackfoot e Metis, ma messo in opera da Johnpaul Jones, Smith Group con Lou Weller, Native American Design Collaborative e Polshek Partnership Architects) con le sue forme curve avvolgenti che sembrano alludere alle mesas del southwest, rafforza questo approccio. Le enormi differenze tra le culture andine e quelle dei pueblo dell’America del Nord, che il museo sostiene di rappresentare, sono livellate, appianate e cancellate in un minestrone indifferenziato. Tale livellamento è accentuato sia dai materiali di costruzione sia dai manufatti esposti, che ingenerano una sorta di misticismo affabile e grossolano di omelie confortanti dietro ogni facciata, riesumando vecchie romanticherie pastorali sull’indiano.
Rimane quindi un esercizio di timidezza intellettuale nonché una desolata revoca dell’obbligo smithsoniano di esplorare la storia e la cultura americane. È uno stereotipo per omissione. Troppe chiacchiere, poca verità; e tutto quanto un’immagine da cartolina dell’indian country nordamericano applicata indifferentemente a due continenti. Erano stati previsti quattro milioni di visitatori l’anno: il mezzo milione scarso che oggi lo visita è già tanto e ricorda che non serve rafforzare gli stereotipi sugli indiani d’America. Purtroppo, ancora una volta, le nazioni indiane si sono ritrovate dalla parte dei perdenti.

Autore

  • Danilo Udovicki-Selb

    Laureato in Architettura e pianificazione all'Università di Belgrado, ha conseguito un master in Filosofia al Boston College e un dottorato in Storia, teoria e critica dell'architettura Massachusetts Institute of Technology. È docente associato presso la Austin School of Architecture dell'Università del Texas.Ha pubblicato molti contributi sugli anni 30 in Francia e Unione sovietica, in particolare sull'avanguardia architettonica russa, su Charlotte Perriand e Le Corbusier. La sua più recente pubblicazione ha riguardato la cura del volume “NARKOMIN: Moisej Ginzburg and Ignatij Milinis” (Ernst Wasmuth Verlag, Berlino). Attualmente, sta scrivendo un libro sulle avanguardie sovietiche nell'epoca staliniana. È corrispondente del Giornale dell’Architettura dal 2003.

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Last modified: 17 Luglio 2015