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Manuela MartorelliWritten by: Reviews

Open city made in Olanda

Città multiculturale, città di scambi, città di accoglienza. Una città che permette interazione e contatto in un sistema multidirezionale. Ma che cos’è esattamente una open city, tema della 4° edizione della Biennale di Architettura di Rotterdam? Le definizioni sono molteplici, a volte pretenziose e fumose.
Progetto ambizioso quello di Kees Christiaanse, curatore per questa edizione, che nel suo discorso inaugurale ci spiega come questa Biennale voglia provare a essere uno spazio di ricerca piuttosto che una mostra di architettura in cui star-achitects padroneggiano il podio. Uno spazio in cui l’urbanità sia il centro di un discorso in cui molte domande vengono poste. Interessante il punto di vista di Christiaanse. Per lui il Randstad (la conurbazione nell’estrema parte ovest dell’Olanda) è un modello esemplare di città aperta, grazie alla rete di trasporti che permette ogni giorno a sette milioni di passeggeri di raggiungere in un’ora ogni punto estremo della regione, ma anche grazie alla decennale multiculturalità.
Il Randstad, però, si può davvero definire una open city? Pensiamo alle miriadi di Vinex (suburbi residenziali monofunzionali per le classi medio-alte), ai cluster finanziari, ai ghetti come Hoogvliet (nonostante l’ultima tendenza di architetti e ricercatori in Olanda sia di presentarlo come una dreamland di scambi sociali e culturali) che costellano il suo territorio. Forse, dunque, open city è un concetto fugace, ambiguo e pieno di contraddizioni.
Le opere presentate in questa edizione della Biennale sono divise in tre mostre parallele.
La principale, «Design Coexistence», allestita al Nai, racchiude lavori provenienti da tutto il mondo, da San Paolo del Brasile a Giacarta a Mumbai, suddivisi in sei sottotematiche: Maakbaarheid (concetto olandese di «fattibilità»), Refuge, Reciprocità, Community, Squat, Collective. Interessante il progetto dello studio Interboro sull’integrazione/segregazione sociale negli Stati Uniti, che prevede un’istallazione sulle possibili «armi» a disposizione dell’architetto per agevolare (o impedire) l’open city; un dizionario di strumenti semplici, come un sistema Gps o una normativa di sicurezza. Un lavoro provocatorio che il visitatore può saggiare seguendo cinque differenti percorsi tematici. Protagonista è tuttavia il caotico insieme di allestimenti della hall, il Forum, uno spazio dove il visitatore può fotocopiare fascicoli su esempi di pezzi di città open a Rotterdam, consultare libri o gustare un caffè chiedendosi se anche il tavolo è parte della mostra. Forse è proprio questa confusione/smarrimento a essere l’elemento chiave della open city.
Altra mostra è quella di Amsterdam, organizzata eccezionalmente per questa edizione: un insieme di nove progetti di giovani studi di architettura olandesi commissionati per l’occasione su nove diverse location attorno alla capitale. Le proposte tentano d’immaginare scenari dove la openess trasforma l’urbanità schiacciata dal turismo e dalle politiche recenti della città.
A continuare la tradizione lanciata da Ricky Burdett, presente all’inaugurazione, la terza mostra presenta il lavoro di 45 università nella location suggestiva del vecchio edificio destinato alla riparazione delle navi del porto di Rotterdam, dove attualmente si trova l’Rdm Campus della scuola specialistica. Selezionati fra 280 proposte giunte ai curatori, i lavori sono spesso visionari e graficamente improbabili, come quello della Tamkang University di Taipei sulla pratica di squatting nei cimiteri della città e la coesistenza fra individuo e spirito. Presenti solo due atenei italiani, la Prima Facoltà di Architettura di Torino e La Sapienza di Roma.
Bella la metafora di Lars Lerup, architetto e urbanista americano molto letto in Olanda, alla conferenza di apertura della mostra. Parafrasando una canzone di Leonard Cohen ci spiega: la città è come una superficie opaca piena di crepe. Sono proprio le crepe presenti su di essa ad aprire le possibilità per la diversità sociale, per la coesistenza e l’interazione.

Autore

  • Manuela Martorelli

    Dopo gli studi in architettura prima al Politecnico di Torino e poi a Rotterdam, ha iniziato un percorso da giornalista freelance con un focus in materia di architettura contemporanea e politiche urbane dei Paesi Bassi collaborando con diverse riveste di architettura e pubblicando con NAi publisher un saggio su OMA e gli anni d’oro dell’architettura olandese. Nel 2010, dopo alcune ricerche indipendenti sulla storia del costume, ha iniziato parallelamente un percorso giornalistico e di creative direction nel mondo della moda prima come corrispondente online per Vogue Italia e in seguito per i-D, Domus, A Shaded View on Fashion. Di recente pubblicazione un testo critico di ricerca sulle influenze dell’arte visiva e delle installazioni di architettura nelle sfilate di moda contemporanea per la rivista indipendente Prestage e due servizi fotografici per L’Officiel Netherlands. È autrice delle recenti guide di architettura e design di Rotterdam per il mensile Living del «Corriere della Sera» e per «Vogue Casa Brasile».

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Last modified: 17 Luglio 2015