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Carlo OlmoWritten by: Forum

Purché non sia un luna park

Scorrendo la rassegna stampa dell’Expo 2015 si nota come oggi persino l’effimero appaia troppo duraturo. Quel che rimane di una lettura sinceramente sconfortante, non è infatti la banalità di quasi tutti gli attori in scena: il politico che si crede astuto; il cortigiano chiamato a proclamare le sorti dell’evento straordinario; la controfigura di Shylock (nel shakespeariano Mercante di Venezia) impegnato a rassicurare che in città sempre più appesantite da appartamenti vuoti il futuro sia una nuova bolla immobiliare; lo sdegnato fustigatore dei possibili sprechi e dei sicuri stravolgimenti ambientali. Né lo sono gli immaginari poveri e ripetitivi che accompagnano la discussione: le torri, le sfere, i canali d’acqua, i parchi – con l’escamotage di cambiarne la scala da urbana a rurale – o le rues des nations, riemerse da polverosi magazzini ottocenteschi.
Colpisce la povertà, se non l’assenza, dei due temi che, in qualche misura, potevano dare senso al tempo che precede e forse seguirà quello effimero dell’Esposizione. Come si costruisce una scienza dell’alimentazione in una società di sprechi e fondamentalismi? Come il più elementare dei diritti, quello alla vita, si può praticare in una società che ha radicalizzato le diseguaglianze? In fondo, per una volta, la forza del tema poteva mettere in gioco la tirannia più feroce in cui viviamo: quella della distanza tra la parola e i fatti – nel nostro caso quella che tra la grande bouffe e la burocrazia della Fao – e restituire alle parole la loro tragicità: fame, miseria, malnutrizione, limite delle risorse, conflitto. Pier Carlo Palermo – e con lui ormai molti intellettuali – quasi alzano le spalle di fronte a quanto accade a Milano: è un gioco che interessa solo la valorizzazione delle aree, al massimo un piccolo afflato di un keynesismo solo patetico e di facciata. Forse hanno ragione. Al tavolo si gioca con carte segnate e, ancor più, le regole di quella partita poco hanno a che spartire con l’insegna al neon che campeggerà sull’entrata di quel futuro luna park milanese. Ma, forse, questa volta l’amarezza è ancor più profonda. In un momento in cui è difficile trovare valori per cui valga la pena almeno credere, l’alimentazione potrebbe aiutarci a uscire da troppi fondamentalismi, in primis quello di un relativismo consolatorio.
La discussione, oggi ancora possibile, potrebbe vedere a confronto scienza e tecnologie, economie e giurisprudenze. Potrebbe diventare l’occasione per far uscire le biotecnologie dagli arsenali degli eserciti delle multinazionali, ma anche da paure millenariste; riportare le Esposizioni universal i alla più antica scommessa di rianimare un progresso amico di un uomo eguale almeno nel suo bisogno di sopravvivere; ricondurre le tecnologie a un confronto tra problemi cui dare una risposta non solo fondata sugli indici di produttività, ma sulla destinazione del prodotto. Potrebbe servire a verificare se davvero l’economia politica che è entrata in crisi di legittimità ritroverà la radice smithiana che animava l’originale scrittura della Ricchezza delle nazioni. E ancor a riportare le scienze dei diritti sulla strada della forza del diritto e non dell’argomentazione sempre più retorica e sofisticata. Certamente, lo sconforto che la rassegna stampa restituisce è anche quello dell’attuale povertà di una pubblicistica che subisce l’opinione pubblica, in un ribaltamento delle parti che forse solo l’usciere del teatro dei Sei personaggi in cerca d’autore potrebbe degnamente introdurre. Ma questa china può ancora essere ribaltata se, per una volta, a un marketing che sta popolando di fallimenti Hannover, Siviglia e, quasi sicuramente Shanghai, si contrapponesse, come avvenne a Londra nel 1851 o a Parigi nel 1867, l’anima più profonda della rivoluzione scientifica: quella dei conflitti che apre, degli attori che mette in gioco, di una rivoluzione che si fonda su quanto siano contesi i beni comuni e le risorse limitate. L’oggetto di una rappresentazione che l’effimero può ridurre a retorica o aiutare a far capire nei suoi possibili esiti, tutt’altro che scontati, lineari e spesso consolatori. Un’Expo che non neghi i conflitti, le diseguaglianze, le paure, anche dentro le scienze e le economie, ma che proprio per questo possa diventare il centro di un dibattito non scontato, appassionato, fondato su quanto si conosce e quanto ancora s’ignora. E soprattutto non destinato a esaurirsi con lo spengersi delle luci del luna park su una nuova distesa d’inutili capannoni.

Autore

  • Carlo Olmo

    Nato a Canale (Cuneo) nel 1944, è storico dell'architettura e della città contemporanee. E' stato preside della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino dal 2000 al 2007, dove ha svolto attività didattica dal 1972. Ha insegnato all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, al Mit di Boston e in altre università straniere. Autore di numerosi saggi e testi, ha curato la pubblicazione del "Dizionario dell'architettura del XX secolo" (Allemandi/Treccani, 1993-2003) e nel 2002 ha fondato «Il Giornale dell'Architettura», che ha diretto fino al 2014. Tra i suoi principali testi: "Le Corbusier e «L’Esprit Nouveau»" (Einaudi, 1975; con R. Gabetti), "La città industriale: protagonisti e scenari" (Einaudi, 1980), "Alle radici dell'architettura contemporanea" (Einaudi, 1989; con R. Gabetti), "Le esposizioni universali" (Allemandi, 1990; con L. Aimone), "La città e le sue storie" (Einaudi, 1995; con B. Lepetit), "Architettura e Novecento" (Donzelli, 2010), "Architettura e storia" (Donzelli, 2013), "La Villa Savoye. Icona, rovina, restauro" (Donzelli, 2016; con S. Caccia), "Città e democrazia" (Donzelli, 2018), "Progetto e racconto" (Donzelli, 2020)

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Last modified: 18 Luglio 2015