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Parole contro il vuoto dell’architettura

Parole contro il vuoto

è intitolata l’introduzione di Marco Biraghi alla recente antologia da lui curata per la Piccola Biblioteca Einaudi insieme a Giovanni Damiani. È un titolo significativo dello spirito innanzitutto didattico con cui il libro si offre a un pubblico sempre più disabituato a pensare l’architettura al di là degli slogan di pronto consumo. Contro la rapida obsolescenza connaturata a un sistema usa e getta, la raccolta di Biraghi e Damiani cerca di offrire un argine, la cui saldezza il lettore è invitato a misurare attraverso un vademecum per frequentatori, più o meno neofiti, della teoria dell’architettura del secondo Novecento. Il volume, articolato in tre parti, consente una lettura diacronica del dibattito dal 1945 al 2000, anche se, come in tutte le antologie, con la tentazione di saltare liberamente tra i decenni e gli autori, ben tollerata tuttavia dall’impianto stesso del libro, anche grazie alle ottime e brevi presentazioni scritte da Damiani per ciascuna delle tre parti. Il filo conduttore (e quindi la tesi) della raccolta emerge con chiarezza proprio dalle presentazioni, che lo individuano in tre fasi (vagamente hegeliane?) della crisi di una modernità intesa in senso forse troppo monolitico, ma del resto necessario per sostenere la tesi stessa, che vuole il secondo dopoguerra diviso in un primo ripensamento del moderno (1945-1965), in un tentativo di superarlo (1966-1980), in una presa d’atto del suo superamento con la conseguente chiamata in causa della postmodernità (1980-2000). Rispetto ai vari reader usciti dopo il 2000 presso le grandi case editrici statunitensi, la raccolta si differenzia per la maggiore sintesi (36 testi) e per lo sguardo centrato sull’Italia, non tanto in virtù dei molti italiani presenti (quasi tutti sono habitué delle antologie Ivy League: Bruno Zevi, Ernesto Nathan Rogers con due pezzi, Giulio Carlo Argan, Aldo Rossi, Vittorio Gregotti, Superstudio, Manfredo Tafuri con due pezzi, Ezio Bonfanti e Massimo Cacciari), quanto piuttosto per una scelta degli stranieri che sembra essere condotta, con riferimento alle prime due parti, sui temi portanti del dibattito nazionale. Non è un caso che quando la discussione italiana perde la propria specificità, nella terza parte, resti solo Cacciari a rappresentare l’Italia, mentre il testimone passa decisamente ai paradigmi pop, decostruttivista e a vario titolo sperimentale (due i pezzi di Rem Koolhaas), con la chiusura affidata a una pindarica ricostruzione di Anthony Vidler in
cui Gilles Deleuze dovrebbe spiegare la moda dei blob. Dello stesso Vidler è di ben altra chiarezza (e probabilmente l’interesse dell’argomento è molto maggiore) il volume uscito nell’autunno scorso da Mit Press su un tema legato, come quello di Biraghi e Damiani, alle varie fasi della crisi e del superamento dell’apparato dogmatico del Movimento moderno. Si tratta di quattro saggi dedicati rispettivamente a Emil Kaufmann, Colin Rowe, Reyner Banham e (ancora) Tafuri. Ovvero come la storiografia ha inventato un moderno monolitico negli anni trenta per poi smontarlo dopo soli vent’anni.

Marco Biraghi e Giovanni Damiani (a cura di), Le parole dell’architettura. Un’antologia di testi teorici e critici: 1945-2000, Einaudi, Torino 2009, pp. 487, euro 22.

Anthony Vidler, Histories of the Immediate Present. Inventing Architectural Modernism, Mit Press, Cambridge (Mass.) 2008, pp. 239, dollari 22,95/sterline 13,95.

Autore

  • Manfredo di Robilant

    Architetto e storico dell’architettura, è stato associato alla ricerca della XIV Biennale di architettura di Venezia, per cui ha curato i libri su ceiling e window (Marsilio, Rizzoli International, 2014). Ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dell’architettura presso il Politecnico di Torino ed è stato visiting scholar al Canadian Centre for Architecture di Montréal. Insegna alla Domus Academy di Milano e ha tenuto lezioni alla Washington University di St. Louis, all’Institut für Kunstwissenschaft di Brema, allo Strelka Institute di Mosca, alla Harvard GSD. Ha scritto per «Il Giornale dell’Architettura», di cui è stato assistente alla direzione, «Arch+», «Baumeister», «Domus», «World Architecture». Condivide con Giovanni Durbiano lo studio DAR-architettura.

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Last modified: 18 Luglio 2015